mercoledì 29 agosto 2012

CAPITOLO II: L’ultima condanna a morte



L’ultimo processo contro un alchimista fu istruito a Venezia, il martedì grasso dell’anno 1888, lo stesso in cui Jack “the ripper” mieté le sue 5 vittime a Londra. Fu grottesco. Esso si tenne dinanzi a una foltissima folla, ignara di tutto. Fu una specie di sfida boriosa, che per un vezzo inutile, rischiava di mettere in pericolo la segretezza perseguita in modo così maniacale dal gruppo, e, con ciò, addirittura di far perdere la vita di centinaia di persone. Qualora infatti agli alchimisti fosse venuto in mente che qualcuno dei presenti avesse avuto idea, o intuito, di cosa si trattava in realtà, non avrebbero esitato a ucciderli tutti, pur di evitare rischi. Una decisione delle solite, assurda, come tante altre, del Fante di Coppe. Per fortuna loro nessuno dei presenti seppe mai, o intuì, di cosa si trattava e pensarono solo di assistere a una buffissima farsa in cui un ragazzino imberbe, pieno di spocchia, e dalla loquacità non comune vista l’età, giudicava un anziano colpevole, secondo l’accusa, impersonata da un uomo vigoroso e forte, sui cinquanta anni, e con accento dell’est, di essersi fatto rubare qualcosa di prezioso. Una preziosa ricetta di cucina, da quanto si poteva evincere. Il fatto che egli cercasse di non essere condannato per il furto subito (e non uno realizzato), di qualcosa di poco conto (una ricetta appunto), unito a quello che un giovanetto fosse, indiscutibilmente, la più alta autorità in mezzo a una giuria di persone tutte più anziane di lui, faceva morire dal ridere una platea divertita da questo mondo al contrario. Su un lato della piazza, a ridosso di un muro, era stata eretta una tribuna, su di essa, al centro, occupando lo scranno più alto e stupendamente fregiato, il giovane. Egli era considerato la persona di maggior saggezza e appellato “eminentissimo”. Sedute a semicerchio, con contegno solenne, altre figure vestite in modo sfarzoso, ma sinistro, una ventina, molti con lunghe barbe, e gli occhi piccoli e rugosi, non parlavano, ma ascoltavano con attenzione, al massimo annuendo, o scuotendo il capo di tanto in tanto, o emettendo un brontolio, durante i passaggi più interessanti della difesa o dell’accusa. Il pubblico si divertiva e rideva a sentire il giovane giudice rivolgersi all’imputato, decrepito e dalla lunga barba, con aspetto venerando, in modo inquisitorio e irriverente. Formulava domande con un tono irrispettoso ed incalzante, dandogli ripetutamente dell’imbecille e dell’incompetente, e quello balbettava vergognosamente vaghe scuse, farneticando in preda al terrore e alla confusione mentale, ammettendo, lui per primo, la sua cialtroneria. Il processo era più una umiliazione pubblica che altro, e andò avanti per ore, di notte, su una piazza illuminata da lanterne colorate, dove pure era posto un alto patibolo, con una ghigliottina che “pareva vera”. Nel frattempo, attorno, impazzava il carnevale e gente spensierata e allegra si baciava in pubblico, urlava e scherzava gioviale e volgare.
Alla fine, l’anziano fu condannato a morte e la sentenza letta lentamente, in latino, da una voce baritonale di enorme fascino e solennità, che richiamò in modo perentorio l’attenzione degli occasionali spettatori. Tutti ammutolirono mentre il giudice si alzava in piedi per dare l’ordine dell’esecuzione, che fu eseguito immediatamente, sul posto, tra le urla implacabili e il panico orribile dell’anziano dalla lunga barba, che si dissolveva stridente tra il silenzio, incredulo e un po’ sgomento di chi era vicino alla scena ed era rimasto inquietato dalla verosimiglianza della disperazione del morituro, e le risate di un pubblico sbronzo e festante più lontano e disattento, o sperso tra giochi e amenità per tutto il resto della piazza e dei vicoli limitrofi. D’improvviso un fortissimo scroscio di pioggia gelida sorprese tutti, proprio poco prima che la mano malferma e anziana di un altro alchimista, mascherato con un lungo becco da corvo, facesse cadere la pesante lama e la testa rotolasse. Il pubblico, distratto dall’improvvido cambiamento climatico, abbandonò di corsa e urlante il posto senza soffermarsi sul finale della supposta farsa, e sul fatto che il capo, caduto nel cesto di crusca, non fosse finto. Settimane dopo dei barcaioli trovarono un corpo senza vita e col capo mozzo in un canale. Si indagò, ma nessuno ricollegò l’accaduto al processo carnascialesco, anche perché il corpo non era corrotto e pareva essere deceduto il giorno stesso. Non se ne venne a capo. Lo inumarono senza la testa, che non fu mai trovata.
L’anziano giustiziato aveva una prodigiosa abilità per alcune branche dell’alchimia, anche se non era in possesso di una formula di immortalità di gran pregio. Aveva l’aspetto di un ottuagenario, e secondo la leggenda, s’era imbattuto secoli prima con un elisir che lo faceva vivere in eterno, quasi per caso, mentre si dedicava alla sua specialità prediletta. Difatti aveva creato già molte fiale con spiriti intelligenti, vapori parlanti, anime estratte da elementi della natura e poi intrappolate in ampolle o cristalli, con le quali dialogava spesso e che interrogava sulle origini, la composizione e le sorti dell’universo. Era anche un erudito demonologo che interrogava spiriti antichi e spesso malvagi. All’inizio della sua carriera aveva iniziato studiando i procedimenti per costruire un Golem, questa era la grande passione della sua esistenza. Aveva sempre raggiunto eccellenti risultati, poi aveva notato gli effetti di quella sostanza che non lo faceva invecchiare più, ed aveva deciso di fabbricarla ed assumerla costantemente, cambiando il suo proposito originario, che voleva seguire i ritmi della natura, per l’insorgere in lui di un acuto e implacabile terrore della morte. C’è da credere che dai suoi dialoghi con gli spiriti della Natura non avesse ricevuto buone notizie e avesse saputo di un destino che lo atterriva, ma non lo rivelò mai a nessuno. Neppure il giorno del processo disse cose precise, farfugliò solo incoerenze e allusioni che non convinsero nessuno della necessità di una assoluzione e meno che mai il crudele giudice. Il miglior argomento a sua difesa fu il terrore con cui reagì alla lettura della sua condanna, e gli strattoni e pianti, le grida e le suppliche che si spensero solo sul filo della mannaia. Lasciò tutti sgomenti, tranne il giudice, che rise di gusto e tutti dietro a lui, forse per piaggeria, mentre la pioggia li batteva impietosa come la ghigliottina.
Il fatto è che essendo molto anziano, dopo vari secoli di vani tentativi per perfezionare la sua formula dell’elisir di lunga vita, si era messo, ed era riuscito, a fabbricare un famiglio che lo aiutasse nei lavori domestici e anche nella preparazione della sua ricetta, che per sua disgrazia doveva assumente settimanalmente e tardava parecchi giorni a preparare. Pur andando avanti da almeno due secoli, sperimentando in condizioni massacranti, chiuso nel laboratorio, a volte per giorni interi, senza uscire mai, dormiva e mangiava lì, non aveva trovato migliorie significative, anzi nulle. Il famiglio era stato creato coi mezzi a disposizione nella bottega e nel giardino accanto, ricco di argilla, ma non aveva le forze per maneggiare molto materiale, né la possibilità di acquistarne e accumularne, riuscendo al contempo a seguire la sua ricetta d’immortalità.
Perciò si limitò a raccogliere, in faticose e varie sedute, un piccolo ammasso di creta (si suppone dal colore dell’essere e la conformazione geologica della terra che lo circondava, ma il procedimento corretto lo sapeva solo lui) e ne fece un piccolo e bitorzoluto servitore, dai denti radi, la testa sproporzionata. Un famiglio resistente, ma di braccia e gambe corte, un’intelligenza che sfociava più sulla furbizia che altro. Un essere del genere ha una aspettativa di vita di qualche decennio, lo fece in modo tale che gli prendesse un infarto secco a un certo punto, così da non essere costretto alla sua soppressione, dato che di accudirlo in agonia non se ne parlava di certo. L’esserino era molto servile, ed utile, ma dopo anni di schiavitù, iniziò, curiosamente, a pensare con una certa autonomia, si era scottato varie volte in laboratorio, sapeva bene cosa fosse il dolore, forse ne aveva fatto tesoro, e si era posto domande. Aveva fabbricato di tutto, anche oro, era molto destro, aveva visto, in varie occasioni, cosa si può ottenere da esso, perché era lui a realizzare le commissioni per il padrone, e, soprattutto, aveva visto, girando per il mercato mentre faceva le compere, che con esso si può addirittura ottenere l’amore delle donne e la loro compagnia. Non c’era cosa che desiderasse e lo incuriosisse di più. Aveva una tale attrazione verso le donne, che ne chiedeva spesso notizie al vecchio padrone, ma quello, dopo delle prime spiegazioni, si irritava per l’insistenza del piccolo, che gli faceva tornare in mente bei ricordi (e brutti pure) ma in ogni caso gli ricordava che egli, ora, così come stava messo, non avrebbe potuto andare con una di loro. Gli promise comunque che se lo avesse aiutato bene lo avrebbe ricompensato e sarebbero andati entrambi a donne, a spese sue. Quello lavorò ancora più alacremente, ma il tempo passava, i risultati non arrivavano, anno dopo anno, il maestro era divenuto persino più scorbutico e distante dalle sue petulanti richieste. Il maestro non moriva, ma lui stava diventando vecchio, sentiva già qualche acciacco, a volte si appisolava, fantasticava, e invece di andarsene in giro, come era solito fare da giovane, quando il maestro parlava coi suoi spiriti, che trovava oltremodo noiosi, una parola ogni quarto d’ora, col tempo, aveva iniziato ad origliare. Anche lui aveva ascoltato qualcosa di spaventoso allora, tanto che una notte forzò la sua natura fino a riuscire a fare qualcosa di incredibile per lui, che da quando era nato era sempre stato, come era stato creato per essere, così succube e fedele al padrone. Di soppiatto, mentre il vecchio dormiva, gli rubò la ricetta che fabbricava da mattino a sera e da sera a mattino. Poi assunse il farmaco della vita eterna. Avrebbe saputo rifarla ad occhi chiusi ora! Al giorno seguente il vegliardo si trovò da solo. Notò che alcune carte erano sottosopra, capì che il servitore aveva appreso quello che gli mancava per essere autonomo nella preparazione del farmaco e se l’era svignata. Per paura di essere incriminato e processato fece la scelta più sbagliata, tacque del furto, sperando che i rimorsi e la fedeltà con cui lo aveva plasmato e legato, lo facessero tornare da lui, ma ciò non avvenne mai. Il piccoletto anzi ormai godeva della vita che aveva sempre sognato, autonomo, lavorava a ritmo suo, senza attendere le lungaggini del vecchio, fabbricava la sostanza, la proponeva in dialoghi riservati, la faceva provare per un po’, poi si faceva pagare da clienti entusiasti. Col molto danaro che aveva ottenuto aveva cambiato vita, ormai era ben vestito, cappotto, stivaletti, cappello, il barbiere gli pettinava i capelli radi, e lo impomatava per bene, le donne adoravano la sua generosità, andavano spesso con lui, ed egli era ben considerato ed apprezzato. 
In poco tempo, però, la situazione per la segretezza dell’elisir, era enormemente peggiorata, e quando gli alchimisti ne ebbero notizia, si capì immediatamente la gravità della stessa: essa pareva essere sul punto di sfuggire di mano. Un tale, un tipo piccolo e gobbo, con un testone calvo, i denti radi e una faccia da lacchè, affermava di avere un elisir che mantiene sempre giovani. Poteva essere una bufala delle solite, ma il tizio chiedeva cifre esorbitanti per il prodotto, era schivo e si rivolgeva casa per casa solo a borghesi ricchi, nobili, aristocratici, cosa che insospettì i componenti del Circolo e li spinse ad indagare. Uno di loro ebbe notizia di questa storia da un nobile che frequentava fingendo la sua vita normale, gli si accapponò la pelle e volle vederci chiaro, riferì immediatamente tutto agli altri. In breve scoprirono la verità. Furono implacabili. Il famiglio sotto tortura dovette meticolosamente rivelare tutto: motivazioni, scopi, fatti, e soprattutto a quanti soggetti avesse venduto il prodotto e a quanti ne avesse parlato. Questi soggetti furono uccisi tutti, poi si realizzarono altre ricerche per sapere se il ladro avesse omesso di dire qualcosa di significativo. Nonostante non uscisse alcuna nuova, il Circolo decise di sterminare comunque anche tutti coloro che avevano avuto contatti, di ogni genere, con l’improvvisato alchimista. In un breve arco di tempo furono avvelenate una trentina di persone, la maggior parte appartenente alla ricca borghesia o alla nobiltà. Morirono tutti all’istante, quindi nessuno di loro aveva assunto la sostanza. Il famiglio, quando si ritenne che era stata fatta piazza pulita di coloro che potevano sapere o sospettare qualcosa, fu giustiziato, ma la sua morte fu, insensatamente, lenta e dolorosa, e sempre per scelta autonoma dell’alchimista di più alto grado. Insensatamente perché le sue sofferenze non potevano spaventare, né fungere da deterrente verso nessuno, dato che tutto fu realizzato nella massima segretezza. Solo poi il vecchio fu processato e decapitato.

CAPITOLO I: Gli Alchimisti Immortali

Vorrei realizzare una serie di racconti su un unico tema, è da tempo che pensavo di metterci mano e propongo qui le prime bozze di questo nuovo lavoro che spero di poter sviluppare adeguatamente in futuro. 




PREMESSA (e spiegazioni propedeutiche)
Sto per rivelare informazioni ignote a chiunque e secondo alcuni non dovrei farlo. Mi riterranno un traditore, ma non mi importa. Comunque sia è molto probabile che chi leggerà lo scritto non crederà al suo contenuto e lo relegherà tra le fantasie, quindi il danno sarebbe alla fin fine esiguo. Ciò nonostante per me significherebbe quantomeno un processo, e non è da escludersi una condanna, e questo anche se non metterò in pericolo nessun mio collega, e non farò alcun nome, né darò piste che possano portare all’identificazione di chicchessia. Il riserbo in cui è relegato il mondo a cui anche io appartengo, ha qualcosa di davvero sinistro e l’imposizione che si subisce da secoli è per me divenuta intollerabile. Non ho mai avuto la minima simpatia per la maggior parte dei miei colleghi e ho deciso di ribellarmi alle loro regole miserabili e violente. Mi chiamano “La Temperanza”, per mantenere l’anonimato userò questo nome, cosa che non ho mai fatto, e parlerò di me in terza persona, raccontando da esterno tutte le vicende, anche quelle che ho vissuto direttamente.



L’obiettivo sommo, per gli alchimisti, anche se, come è noto, non l’unico, è raggiungere l’immortalità. Possibilmente accompagnata dall’eterna giovinezza. Traguardo massimo per l’essere umano. Checché se ne possa pensare, alcuni di loro ci sono riusciti e non esiste un unico modo per arrivarci. A seconda del cammino intrapreso, i risultati, gli effetti, possono differire anche di molto.

Ancor più sorprendentemente, non tutti gli alchimisti sono ossessionati da questo scopo, alcuni ritengono, infatti, che non saprebbero sopportare una vita perpetua, e anche quando sarebbero in grado di conseguire tale risultato, preferiscono seguire i ritmi della natura.

Gli alchimisti oggi in possesso di una formula del genere sono oltre un paio di dozzine, ma non si può escludere con certezza che ci siano nuovi o persino vecchi appartenenti al gruppo finora sconosciuti.

Essi, in genere, ma non necessariamente, si conoscono e riconoscono tra loro, (e solo tra di loro) anche e banalmente perché, avendo un interesse comune, non è raro che si incontrino nei pochi posti dove esso può essere coltivato seriamente, per esempio determinate biblioteche. Il fatto di vedere taluni volti ripetutamente nel corso di decenni, e poi il vederli riapparire per il mondo pressoché immutati nel corso di secoli, dissipa ogni dubbio rispetto al fatto che i soggetti a cui appartengono siano riusciti nel loro scopo. Questa identificazione è possibile con certezza solo a chi abbia una vita eterna, gli altri molto difficilmente possono accorgersi di qualcosa.

Ogni alchimista ha, ovviamente, a disposizione solo l’arco della propria vita per raggiungere il traguardo. È quindi ovvio che, la maggior parte di chi si cimenta, fallisce e muore prima di approssimarsi a un risultato che gli dia, quantomeno, il tempo necessario per proseguire e perfezionare le scoperte.

Tutti gli alchimisti, anche quelli di maggior successo, continuano, nei secoli, a studiare, posto che nessuno ha una ricetta che sia immune da miglioramenti. E devono, inoltre, occuparsi delle sorti successive alla fine del mondo e della storia umana, questione che li occupa e preoccupa in modo angosciante.

Benché studino e ricerchino in genere alacremente e con impegno per tutta l’esistenza, raggiunto il traguardo principale, non pubblicano più nessuno dei loro risultati, quindi le uniche fonti a disposizione di chi intraprende il cammino ex novo, sono solo studi anteriori alla realizzazione dell’opera e mai testi che ne illustrino uno dei vari procedimenti completi. Ciascuno deve arrivare da sé al risultato cercato, iniziando, tutto sommato, dagli studi di chi ha fallito o non ha completato.

Tutte le culture del globo hanno alchimisti, ma non tutte hanno un alchimista immortale nelle loro file, alcuni posti, invece, hanno una concentrazione straordinariamente maggiore di essi. Ciò dovrebbe dipendere unicamente da questioni culturali e dal fatto che i testi lì a disposizione, o l’interesse generale, vuoi per la materia, vuoi per l’ottenimento dell’immortalità, sono maggiori che in altri posti.

Ogni alchimista segue il suo personale percorso e metodo per la fabbricazione di ciò che gli conferisce il dono dell’immortalità, cosa che parrebbe portare alla creazione degli oggetti o delle sostanze più disparate: cristalli, liquidi da ingerire o dove immergersi, creme, maschere, fuochi, polveri, persino luoghi, e altro ancora, ma non può a priori escludersi che alcuni di loro abbiano trovato, autonomamente, un procedimento comune, o analogo, per ottenere il prodotto finito che permette loro di vivere in eterno.

Comunque sia nessun immortale sa nulla di specifico e preciso riguardo alle tecniche degli altri, posto che assolutamente tutti conservano il più maniacale e assoluto riserbo sui loro metodi e non ne parlano con nessuno, neppure con i colleghi. I meno abili non hanno nulla da dire a quelli più abili, e questi nessun vantaggio ad ascoltarli e tantomeno ad insegnare.

Un alchimista, in genere, vive attanagliato da molte paure.

La reciproca conoscenza, tra alchimisti di diverso rango e fortuna, non suppone rischi per chi più sa, poiché chi più sa è al contempo più forte di chi sa meno, non può quindi subire un attacco da essi o essere costretto a rivelare quello che sappia con la violenza. In genere essi sono comunque estremamente diffidenti anche tra loro.  

Le differenze tra alchimisti dipendono solo dal fatto che i risultati ultimi possono variare anche di molto quanto a effetti e potere e ogni formula può darne di più o meno estesi. Le ricette migliori conferiscono immortalità e ringiovanimento graduabile a piacere dall’alchimista, addirittura di adottare forme a piacimento. Le altre hanno limiti maggiori: alcune permettono di ringiovanire con meno facilità e discrezione, altre non permettono praticamente il ringiovanimento, ma solo una sostanziale stasi del deterioramento della materia.

Ad ogni modo va precisato che una vera formula d’immortalità non frena meramente l’invecchiamento allungando la vita, ma inverte il deterioramento progressivo del fisico, anche se di poco, e riporta l’organismo a uno stato anteriore a quello in cui si trova. Se non c’è questo effetto, anche qualora la scoperta porti una sostanziale e definitiva immutabilità della persona, egli non potrà affermare di aver raggiunto una formula valida e non sarà a pieno titolo nel gruppo degli alchimisti immortali. Avrà comunque il vantaggio di un, addirittura pressoché infinito, serbatoio di tempo per continuare le sue ricerche. Di ricette dubbie ce ne sono varie, ma non c’è chiarezza rispetto ad esse.

Pochissimi alchimisti vivono eternamente e con aspetto giovane, i più possono proseguire la loro esistenza in modo perpetuo conservando approssimativamente l’aspetto di quando hanno completato la ricetta, senza invecchiare di un giorno (o meglio ringiovanendo di pochissimo ogni volta che facciano uso della loro scoperta). Per questo la maggior parte degli alchimisti sogliono essere anziani, o addirittura decrepiti, di aspetto. In genere infatti per ottenere dei risultati apprezzabili ci vogliono decenni interi di sperimentazioni, ed è raro il caso di chi sia approdato all’immortalità, anche se non alla eterna giovinezza, ad una età compresa tra i trenta e i sessanta anni, e comunque mai sotto i trenta.

Da ciò si deduce che i migliori alchimisti, e quindi i più importanti e prestigiosi, hanno aspetto di ragazzi e non di anziani. Un alchimista maturo, ma non anziano, avrà il vanto, su questi ultimi, di essere approdato al raggiungimento della vita eterna in un arco di studi più breve che gli altri, benché anche loro con il limite di non aver trovato la formula che comprenda il ringiovanimento.

Si deduce che essere giovani, nel loro gruppo, è comunque segno di maggiore prestigio e rispetto.

Gli alchimisti in possesso della formula più completa hanno quindi aspetto di ragazzi, vivono in un arco di vita di solito compreso tra i sedici e i trenta anni, poi tornano indietro, più o meno a piacimento, anche lì a seconda delle loro abilità e della facilità d’uso del loro ritrovato. Alcuni possono, più o meno, assumere l’aspetto che preferiscono a piacimento.

Gli alchimisti più giovani hanno anche il vantaggio di poter usare meno frequentemente il procedimento o il farmaco per la vita eterna, posto che possono far trascorrere molti anni e maturare restando in forze e poi decidere di tornare al punto che preferiscano del loro sviluppo. I più decrepiti, invece, posso aver bisogno di usare la loro formula mensilmente e persino settimanalmente.

La formula non è assunta una sola volta e per sempre nella vita, ma l’operazione deve essere ripetuta a scadenze che possono però variare di molto, da intervalli di poche settimane a secoli.

Un alchimista non si dedica solo all’immortalità, ma, nel corso dei secoli, e a seconda delle sue doti, sviluppa anche altre scoperte, tra cui soprattutto trasmutazione degli elementi.

Tutti gli alchimisti sono, per tendenza tipica causata dalla loro scoperta, estremamente edonisti ed egoisti, e per questo non salvano nessun altro essere, tranne loro stessi, dalla morte: non vorrebbero mai correre il rischio di rinunciare alla loro comodità personale per il bene di nessuno. Ma solo i migliori spendono la vita in modo pressoché spensierato e davvero piacevole. Molti sono, infatti, costretti a una serva e continua elaborazione della loro ricetta, cosa che limita molto la loro capacità di azione, movimento e libertà, nonché salute mentale. È per questo che la formula è da giudicarsi migliore, oltre che per l’effetto che sviluppa, anche per una più breve e snella elaborazione e facilità d’uso.

Alcuni anziani, vuoi anche per difficoltà fisiche, devono stare costantemente all’opera per non perdere la propria vita, e alcuni sono da secoli alla ricerca di miglioramenti che permettano loro di ringiovanire progressivamente sino a uno stato che li metta fuori pericolo, ma non li trovano. Essi sono molto scherniti dagli alchimisti di maggior successo e talento, che li vedono come dei miserabili e degli imbecilli, relegati a una perenne esistenza da “schiavi dei fornelli” (così vengono chiamati). Costoro a volte non vengono neppure presi in considerazione e interpellati qualora ci sia da prendere una decisone comune.

Un alchimista può essere ucciso e decedere come qualunque altro essere umano, è solo molto più resistente alla morte, vecchi compresi. È necessario un forte trauma per farlo fuori: taglio della testa per esempio. Possiede doti eccezionali come una sorprendente resistenza al soffocamento o l’annegamento, ed è del tutto immune ai veleni e alle contaminazioni.

Nel caso degli alchimisti giovani il loro vigore è straordinario, posto che la formula suole, in genere, conferire al corpo il miglior tono che esso sia programmato ad avere.

Con la conquista dell’immortalità, per una inspiegabile tendenza insita forse nel processo stesso, l’alchimista diviene terrorizzato dalla possibilità di perdere la propria vita, e questa assume un valore mille volte maggiore di quello, già incommensurabile, che ha per ogni essere umano. Ogni alchimista, quindi, protegge se e la sua vita in un modo che ha del maniacale o paranoico e con ogni mezzo e da ogni cosa. Questo pensiero lo assilla costantemente ed evita ogni tipo di rischio inutile in modo pressoché fobico. Non è neppure pensabile che un alchimista immortale si sacrifichi per nessuna ragione, causa, ideale, sentimento.

Oltre alla vita un alchimista è un maniaco conservatore della sua integrità fisica, giacché, seppure la ricetta lo rigenera in modo anche stupefacente da cicatrici, bruciature, ferite e rotture, nel corso dei secoli, l’accumularsi di quelle troppo profonde per rigenerarsi, lo renderebbero inguardabile e sofferente.

L’esorbitante importanza della propria vita per un immortale lo spinge, al contempo, a sottostimare quella degli altri esseri umani, che ormai vede come distanti e appartenenti a un’altra specie animale. E per salvare la sua vita o evitare che venga messa in pericolo sono, in genere, ben disposti a ricorrere all’omicidio. Alcuni lo sono anche per mere convenienze di minor importanza.

Un alchimista immortale desidera non dare nell’occhio e non far appurare a nessuno la propria identità, che assume e varia insieme al paese e ai luoghi di residenza in modo da non destare sospetti e a piacimento.

Evitano di dover entrare in luoghi, tipo prigioni, dove potrebbero essere costretti a spendere molti anni e forse anche correre il rischio di essere scoperti dai mortali e magari costretti a svelare la formula.

Essendo soggetti alle leggi fisiche comuni agli esseri umani, evitano anche di infilarsi in luoghi quali grotte o sommergibili, dove potrebbero correre il rischio di essere confinati per eoni e non riuscire a uscire, o addirittura di morire a causa dell’impossibilità di realizzare la ricetta per il ringiovanimento qualora ciò si rendesse necessario. 

Un alchimista non parla mai a nessuno di nulla che concerna la propria formula, tiene tutto quello che la riguarda occulto, e soprattutto il fatto di averla e spesso anche che esista la possibilità di ottenerla. La loro reticenza a diffondere, anche tra loro, le proprie scoperte è motivata da varie ragioni. I più pragmatici, ma forse anche ipocriti, confessano solo che non gli conviene che la situazione scappi di mano e siano in molti ad accedere a questi segreti, posto che, altrimenti, temono che presto si troverebbero immersi in un’umanità sconfinata che non potrebbe avere posto e sopravvivere con un minimo di agio sul pianeta. Il che vanificherebbe lo scopo delle loro ricerche e creerebbe una situazione infernale per tutti. Più conoscono una cosa più rischi ci sono che essa si diffonda. Ma altra parte della verità è che agli alchimisti piace sentirsi superiori agli altri.

Difatti, sebbene per la stretta sopravvivenza un alchimista non abbia bisogno, ma anche qui ci sono variabili legate al grado qualitativo della formula scoperta, di null’altro per sopravvivere che degli ingredienti necessari a portare avanti il proprio procedimento alchemico, (non hanno, per dirla chiaramente, nessuna necessità di mangiare e bere o dormire, per esempio) continuano a svolgere quotidianamente tali attività mondane per puro edonismo o estetica e non vorrebbero mai rinunciarvi per salvare degli appartenenti alla razza umana.

In effetti assolutamente tutti gli alchimisti sono sconfinatamente egoisti, e per ciascuno di loro l’unica cosa che conta, è la loro formula segreta che, tutti, hanno scopeto in solitudine perfetta e con fatiche tali da aver segnato per sempre il funzionamento della loro psiche. Ciò abilita in loro solo un diffidente e distante rispetto per chi sia arrivato allo stesso traguardo e per nessun altro. Praticamente tutti gli alchimisti che approdino alla scoperta reagiscono istantaneamente allo stesso modo: chiudendosi al resto degli esseri umani.

La loro maniacale e esagerata diffidenza per il genere umano, la superbia, e un certo disprezzo più o meno velato per tutti coloro che non abbiano raggiunto la formula, e persino da parte di quelli che sono in possesso di migliori ricette verso coloro che ne hanno di peggiori, delinea un comportamento e un modo di ragionare e vedere il mondo, tipico dell’alchimista. Egli inoltre, in genere, non ama più nessuno, non ha amici o relazioni stabili, e meno che mai tra gli umani, sapendo che dovrebbe subire il distacco a proprie spese o dover optare per infrangere il proposito di non diffondere e condividere con nessuno i risultati della formula.

Tra l’opzione di lasciar morire un amico, un fratello o l’amata della prima vita mortale e quella di salvarli condividendo gli effetti del risultato (sempre beninteso senza mai svelare la formula), pare che mai, nessuno abbia scelto la seconda opzione, ma ci sono storie discordanti e leggendarie. In ogni caso se ciò si verificasse e l’alchimista decidesse di salvare qualcuno, l’amico o l’amata, sarebbero in eterno assolutamente dipendenti delle abilità del loro alchimista di riferimento, cosa che, si immagina, nel volgere di qualche secolo porterebbe, e sempre e solo qualora la relazione non si deteriorasse in modo irrimediabile e loro non venissero abbandonati al loro destino mortale, il non alchimista a essere più un servo di lui che altro.

Svelare la formula è invece vietato e comporta la morte sia del beneficato che dell’alchimista.

La propensione, non solo ad isolarsi ed essere oltremodo schivi col resto del genere umano, ma anche a sfruttarlo o usarlo unicamente con fini utilitaristici (produrre beni di consumo, servirli, copulare), è maggiore in chi ha scoperto una formula in epoche più risalenti. Difatti seppure tutti gli alchimisti “valgono uguale”, posto che hanno solo l’arco di una vita per trovare la formula e quindi tutti hanno raggiunto un risultato analogo in modi e tempi analoghi, è certo che coloro che continuano a vivere oggi da epoche più antiche sfruttano la loro scoperta da più tempo e si sono “disumanizzati” da più tempo e più profondamente.

Sarebbe però un errore pensare che il processo sia progressivo ed inarrestabile: arrivati ad un certo punto tutti si stabilizzano e si può pensare che, verosimilmente, non ci sarebbero differenze tra un ipotetico alchimista dell’antico Egitto, uno romano, e probabilmente già oggi, uno napoleonico.

È per questo che pur non essendoci una “società di alchimisti” vera e propria, salvo quanto specificato oltre, tra loro non vigono criteri di superiorità o prestigio basati su “anzianità storiche”, ma solo una sorta di rango creato in base all’accuratezza e l’effetto della formula.

Tra l’altro, riguardo all’anzianità, c’è da dire che un alchimista è e rimane un essere umano, e con ciò le sue capacità mnemoniche, pensiero, capacità fisiche, seppur tenute sempre al suo massimo livello e rinnovate costantemente dall’uso della ricetta, rimangono limitate, sicché essi perdono, col passo del tempo, in modo pressoché completo, la memoria di epoche molto distanti e ovviamente persino di identità che, in esse, loro stessi abbiano adottato, nonché di persone conosciute, avvenimenti occorsi e tutto il resto. La consapevolezza di questo processo di oblio rende, soprattutto i più antichi, oltremodo compassati e poco propensi all’entusiasmo e all’emotività.

Sebbene gli alchimisti non solo non si frequentino assiduamente e non sono legati, in genere, da vincoli di amicizia o solidarietà speciali, ma non abbiano neppure chiaro essi stessi il loro numero esatto, col tempo s’è creato una specie di “Circolo” al quale molti di loro hanno aderito.

Esso si riunisce solo in determinati casi o ciclicamente ogni molti anni, e l’unico scopo di esso è quello di controllarsi gli uni agli altri in modo da assicurarsi che nessun alchimista conosciuto, appartenente al circolo o meno, faccia dono mai della propria formula a nessuno. La pena per chi svela o riceve la ricetta è la morte, ed essa è comminata da una giuria del circolo e dal suo presidente. Fino ad ora sia il Circolo, sia, quando non era ancora stato istituito, altri alchimisti sciolti, hanno sempre scongiurato ogni rischio e represso infrazioni.

Il fatto di entrare in possesso della formula per altra via che non siano le ricerche personali, vale a dire sia per dono che per furto per esempio, comporta la soppressione fisica immediata del non alchimista sia quale sia la sua storia, ricchezza, fama, prestigio, sesso, o circostanza, e un processo per l’alchimista, qualora sia il circolo ad intervenire, o l’uccisione sommaria di lui da parte di un collega che sia a conoscenza dei fatti, se gli riesce.

Anche chi si fa rubare la formula risponde di una grave colpa secondo le regole del Circolo, e ciò stimola anche la segretezza e prudenza. Non è però considerato illecito evitare la propria soppressione fisica svelando la formula, posto che la vita è il bene sommo e non è pensabile che essa venga sacrificata, ma si giudicherà invece la ragione che ha permesso a qualcuno di ricattare l’alchimista, minacciarlo e estorcergli il segreto.   

Va da se che qualora un mortale entri in possesso della formula per una via che non sia la propria ricerca personale deve essere soppresso, cosa della quale si incarica sempre il Circolo. Va soppresso anche chi ruba solo il prodotto finito e non saprebbe rifarlo, anche qualora esso gli conferisse solo un prolungamento della vita, dato che, come detto, non è ancora mai stata trovata una formula che salvi dalla morte in una unica assunzione.

Tra gli alchimisti gira la voce e il sospetto che alcuni di essi potrebbero non essere i diretti scopritori della formula, ma persone che hanno soppresso il legittimo proprietario e ne hanno appreso ed usurpato i segreti. Quindi tutti si guardano con diffidenza, ma specialmente sono visti con sfiducia coloro che appartenevano a famiglie ricche e nobili, dato che avrebbero potuto pagare le ricerche e poi appropriarsi dei risultati senza dare scampo al vero alchimista. Questa diceria circonda soprattutto uno di essi, un nobile napoletano del diciottesimo secolo.

La ragione della loro maniacale contrarietà ad allargare il molto esiguo gruppo di eletti, neppure dando piste o suggerimenti a coloro che stanno studiando sulla loro formula, e neppure con persone di fiducia o amate, è motivata anche dal fatto che, secondo una comune opinione, chi entrasse a conoscenza delle stessa senza il necessario percorso e la relativa serie inaudita di sforzi, sacrifici e sofferenze, non darebbe il giusto peso ad essa e in breve la voce correrebbe e gli immortali diventerebbero presto un numero così spropositato da rendere il pianeta invivibile. Ciò forse non avverrebbe mai, ma loro hanno la fobia di questo scenario, dato che vivere sarebbe una sofferenza, l’accaparramento di alcuni degli ingredienti necessari impossibile, e paradossalmente sarebbero costretti a rinunciare all’unica cosa a cui tengono: la vita.

Non tutti gli alchimisti aderiscono al Circolo. Alcuni, anche di quelli di maggior rango, almeno due dei più importanti e altri quattro più anziani, ma validissimi, ne restano fuori e diffidano di questo sodalizio e dei suoi presupposti specie dopo il cambiamento del 1500. Lo fanno per ragioni anche opposte: alcuni sono meno ostili verso l’umanità e i loro ex fratelli, altri ancora più schivi della media, credono di non aver bisogno di nessuno e di potersela cavare da soli, o sono troppo misantropi o superbi per sopportare vincoli.

Comunque gli immortali del Circolo hanno da tempo istituito l’usanza di contrassegnare ogni alchimista, dentro o fuori del sodalizio, con una carta dei tarocchi. Essa viene estratta dall’interessato da un antico mazzo e qualora il soggetto si rifiuti di prendere parte al rito, la si estrae per lui lo stesso e viene chiamato col nome della carta anche contro la sua volontà.

La carta dell’alchimista che muore viene rimessa nel mazzo e può essere estratta di nuovo, in tal caso il nuovo possessore prende il suffisso di secondo, terzo e così via. Le carte oggi assegnate sono 27 delle 78. Una leggenda senza fondamento alcuno dice che quando il numero di immortali sarà quello di tutte le carte del mazzo, il mondo finirà e gli alchimisti con lui, a meno che non abbiano trovato altre formule per vivere fuori dal mondo.

Tra gli alchimisti non ci sono donne.

La provenienza geografica degli alchimisti è varia, dei 27: (ci si riferisce al nome attuale del posto di origine anche se non sempre è certo, o l’aria geografica è oltremodo vasta. Ci sono spesso indicazioni vaghe su tutto) 6 sono italiani (uno viene però dal Nuovo Mondo), 5 mediorientali, 2 africani, 2 ebrei, 2 spagnoli, 1 tedesco, 1 islandese, 1 scandinavo, 1 inglese, 1 scozzese, 1 irlandese, 1 russo 1 cinese, 1 indiano, 1 ceco. Di essi 21 appartengono al circolo e 6 no. Dei sei 2 sono giovani e 4 no. Dei 2 giovani uno è italiano e sono io. Dei 5 più maturi un altro è italiano, ha l’aspetto di un quarantenne ed è un nobile napoletano.

Il più antico è l’africano, ma non è tra i più giovani, il secondo il cinese, il terzo un arabo (di parecchio meno antico degli altri due e non appartiene al Circolo), il quarto, della stessa epoca del terzo, è un ebreo. Spesso non si sanno le epoche precise, specie dei più antichi, che sono persone oltremodo schive e infide. Loro quattro non possono vantare, da questo punto di vista, benemerenze particolari tranne per il fatto di aver scoperto la loro ricetta molto tempo fa e con tecniche e strumenti assai rudimentali e di avere un’idea più approfondita della storia degli alchimisti. Infatti essendo sulla terra da molto tempo hanno una visione più dettagliata della storia degli immortali e su di essa: quanti e quali sono morti e perché, quanti processi si sono tenuti e dove, quanti dispersi, quanti omicidi, conoscono decine o centinaia di storie ed episodi del genere tra i più antichi. Tuttavia le storie non sono verificabili, e molte affondano nella leggenda. Hanno appunti (come ogni alchimista), altrimenti non ricorderebbero molto delle epoche remote. Li tengono nascosti e ne parlano di rado e solo su richiesta motivata, per rendersi preziosi e necessari.

Il più recente è il tedesco, diventato immortale durante al seconda guerra mondiale, ha una formula di eccellente potenza.

Il leader del Circolo è un italiano con aspetto da ragazzo, considerato “recente”, è del 1500, prima di questa epoca si è considerati “antichi”. Nel 1500 ci furono importanti cambiamenti nella società alchemica.

Solo in un caso due della stessa famiglia e epoca sono riusciti entrambi ad arrivare a un risultato comune, erano due fratelli italiani del tredicesimo secolo, uno dei due è morto.

Le 27 carte estratte sono (per ordine di potenza della formula):
1.  Il fante di coppe: (il leader, italiano, ragazzo, formula recente 1500 c.)
2.  Il cavallo di bastoni: (tedesco, ragazzo, formula recente 1940 c.)
3. Il quattro di danari: (inglese, giovane, formula recente inizio 1900)  
4.   Il sei di spade: (cinese,  maturo, antico)
5.   Il cavallo di coppe: (russo, mezza età, antico)
6.   Il re di danari II: (ceco, mezza età avanzata, formula recente)
7.   Il matto: (mediorientale – Turco, anziano, antico)
8.   Il cinque di bastoni: (mediorientale- Arabia, mezza età avanzata, antico)
9.    Il dieci di coppe: (mediorientale- Marocco, anziano non troppo, antico)
10.  L’otto di bastoni: (mediorientale- Caucaso, anziano, recente)
11.  Il due di danari: (italiano, anziano, antico)
12.  Il due di spade: (italiano, anziano, antico)
13.  L’imperatrice: (scandinavo, anziano, recente)
14.  Il fante di danari: (ebreo, anziano, antico)
15.  Il due di bastoni: (africano, anziano, formula antica)
Da qui in poi gli alchimisti sono davvero molto anziani o decrepiti:
16.  La torre  (indiano)
17.  L’appeso (africano)
18.  Le stelle (italiano)
19.  Il bagatto (scozzese)
20.  Il tre di spade (ebreo)
21.  Il sei di spade (spagnolo)

Fuori dal Circolo, e senza aver accettato il nome rimangono:
22.  La temperanza: (italiano, giovane, formula antica)
23.  L’asso di bastoni (irlandese, giovane, recente 1700 c.)
24.   L’asso di cuori (italiano, mezza età, formula recente)
25.  Il cinque di danari (arabo, non troppo vecchio, antico)
26.  Il nove di bastoni (islandese, anziano, antico)
27.  Il cavallo di coppe (spagnolo, non troppo vecchio, formula non recente 1400 c.)

A quanto pare sono morti, o stati uccisi, circa dieci alchimisti immortali nel corso della storia umana. Di almeno cinque soppressioni possiamo essere sicuri, anche se alcune circostanze potrebbero essere leggendarie. I processi conosciuti sono diversi, quelli con condanne a morte solo 3. I dispersi dati per morti sono 5 circa. Le persone entrate in possesso della formula senza diritto e successivamente soppresse sono una decina, attualmente non ci sono carichi pendenti. Gli umani uccisi dagli alchimisti per tutelarsi o proteggersi sono innumerevoli.

Un solo alchimista si è suicidato nella storia del mondo.