giovedì 29 marzo 2012

SONNOLENZA POSTPRANDIALE

E dopo qualche altra Guinness si stempera, poi dilegua in una assolata nube di pensieri l’irritazione quotidiana per il presente. All’ennesima dolcemente torna, alla mente colta da sopore, il ricordo degli anni passati, quelli prosperi e felici dell’infanzia, ed ecco che un lieve odore di catrame si sprigiona dalla coppa vuotata e invade la stanza lasciando fiorire nella memoria trasognata la figura del porto, e richiamando la fragranza del Viavà e i felici anni '80, quegli scomparsi aromi tumorali, le pile cancerogene ricaricate al termosifone e gocciolanti acidi come uberi di giovenche. Tornano alla mente pomeriggi interi spesi nel nulla, i compiti e il catechismo, quando il clero occultamente inculava, in modo metaforico e non, le future generazioni. Erano allora prepotenti le pulsioni adolescenziali, ma si sviluppavano nel martirio rigoroso della carne, temprata la temperanza nella frustrazione della chiusura dei bordelli, dei sensi di colpa e senza il compendio dell'odierno onanismo su internet. Fiorivano lire ovunque, piccole mani paffute scialavano in stickers e bigbabol porzioni di stipendi ora decurtati o inesistenti. La natura stessa, col volto smorfiato in un artificiale ghigno, parlava di prosperità dalle profondità delle falde e dei corsi d'acqua eburnei e inquinati. Promettevano i rivi contaminati e i boschi sommersi di mondizie, abbondanza di beni, testimoni fededegni di un mondo prospero e felice traboccante di oggetti e plastiche. L’inquinamento ambientale non conosceva i limiti della proterva arroganza di normative rigorose e una sana corruzione democristiana strangolava con parca metodicità il cittadino italico ancora in grado di acquistare case e operosamente indaffarato ad ipotecare un futuro altrui nel rispetto ferreo della regola virtudiosa del minimo sforzo. Nel torpore ebbro del meriggio postprandiale riappare la famigliare e bonaria sagoma del nonno che offre gelati privi di tabella nutrizionale. Con gioviale sapienza racconta terribili storie di guerra tollerando, al contempo, nella salda indulgenza di chi qualcosa ha pur fatto nella vita, la protervia scanzonata di una generazione di figli imbecilli, spesso inclini ad accapigliarsi, anche con le armi in pugno, dietro a una politica da stadio, assolutamente scevra della tracotante intenzione di risolvere qualsivoglia problema concreto. Tra stanche e pigre chiacchiere, virtuosamente prive di senso alcuno o di adesione alla realtà, ponevano le basi, i tapini dell’epoca, sì destri in operosa demenza, per demolire le conquiste di anni di lotte, ottenute col sangue e il lavoro delle passate generazioni. Nella placida indifferenza per gli sforzi del passato, e per le conseguenze sul futuro, si ostinavano a concedersi con indulgente malagrazia le loro eccessive pretese di bimbi capricciosi. 

martedì 6 marzo 2012

Opinione sulla ipertrofia di scaramanzia e superstizioni in Italia

Certamente uno potrebbe iniziare il discorso con un bel florilegio di erudite scempiaggini che mettano in luce, magari con quel consueto languore nostalgico da polveroso topo di biblioteca, l’antichità e le origini ancestrali e sacre di comportamenti (gesti, pensieri, parole) fatti e detti con lo scopo irrazionale e stupido di influire attraverso di essi sul percorso del futuro ed ottenere la concretizzazione di una o altra opzione possibile, dominando o blandendo l’imponderabile col fine illusorio di poter navigare sempre su acque fortunate e liete. Ogni italiano troverà in sé decine e decine di cose che fa o non fa, dice e non dice, per provare a ingraziarsi la Fortuna e scongiurare un pericolo. Agli italiani non basta scherzare con la legge di Murphy e nel trascorrere di una sola giornata conterà svariati e più o meno diretti o obliqui riferimenti di chiunque vicino a sé a “iella”, “sfortuna”, “sfiga”, “scarogna” etc. per spiegare accadimenti vari o per scongiurare un avvenire nefasto. Senza contare poi tutti quelli che credono al malocchio, all’invidia e simili puttanate e ne difendono l’importanza e la potenza e peggio ancora provano a darne una spiegazione a volte addirittura sfacciatamente speudorazionale. Anche la letteratura italiana ha celebri esempi, sconosciuti altrove, di autori geniali penosamente costretti a trattare di questo particolare tema -e malcostume- che sfocia nell’ossessivo e persino nel violento e a cui sottende un peculiare e, al solito (per gli italiani), pidocchioso e da tempo anacronistico modo di rappresentarsi la realtà delle cose. Trovare le radici ancestrali e profonde di gesti che sono capitolati fino a noi dalla notte dei tempi, e che in qualche caso hanno assunto anche una valenza del tutto diversa e inopinata, migrando in ambienti nei quali sono stati adottati in modo del tutto fortuito e impensato, potrebbe anche essere divertente. Sarebbe un discorso forse anche da dotti, da vecchie, ma tutto sommato interessanti, mummie appassionate di antropologia e culture scomparse, se il paese non fosse già abbastanza vecchio. Le corna, per esempio, da qualche decennio sono tratto distintivo degli amanti dell’Heavy Metal, il saluto tra coloro che condividono questa passione, private, nel contesto, di qualsivoglia valenza ben augurale o apotropaica. Ma non è questo il punto della questione e il dato più interessante della ossessiva e massiccia presenza della scaramanzia nell’esistenza di un italiano medio. Il dato principale, per un italiano, sarebbe chiedersi e cercare di capire perché nel suo paese sono ancora così fortemente radicati e ipertrofici modi di agire che in altri posti, che in passato erano altrettanto ignorantemente legati ad essi, con ogni probabilità solo per via del comune minor grado di conoscenza del mondo da parte dei popoli antichi, sono del tutto scomparsi e, semmai, rimangono come mero sedimento gestuale o orale privo della minima adesione emotiva e valenza concreta. Dopo tutto quello di “credere” o riferirsi costantemente alla “sfiga” (neologismo pessimo su cui ci sarebbe molto da dire e che pure mette in luce la pochezza mentale e spirituale degli italiani di oggi) come a un dato concreto e minacciosamente presente, in modo costante ed intenso nel tragitto del divenire, non è altro che il frutto di una determinata rappresentazione del mondo. In essa si attribuisce in buona parte all’imponderabile e all’incerto, prediligendoli ad altro, il motore più profondo dei meccanismi di cause e effetti (semplifichiamo!). Per un italiano come per nessun altro, nell’Occidente contemporaneo e civile, figlio della splendida rivoluzione scientifica degli ultimi secoli, il mondo non è solo duro e faticoso, come per qualunque altro essere vivente, ma anche in buona parte ingovernabile e arbitrariamente noncurante-cieco, o addirittura biecamente ostile, agli sforzi e alle scelte razionali dell’agente. Per riuscire in qualche modo ad imbrigliarlo e indirizzarlo con buona prospettiva di verosimile successo verso percorsi favorevoli non è necessario-sufficiente realizzare al meglio l’attività che si vuole portare avanti, ma lo è anche, e preferibilmente, conoscere dei meccanismi occulti e “magici” che riescano a ingraziarsi forze potentissime e imperscrutabili detentrici, da sole, del truce strapotere di condannare chiunque, senza opzioni di sorta, in qualunque situazione si trovi, con qualunque grado di impegno abbia affrontato la sua attività, all’insuccesso e alla sconfitta. Si tratterebbe di un pericolo concreto e frequente. Ebbene anche io ho, da buon italiota, creduto alla “sfiga” in passato, e qualche volta, come tutti gli esseri umani del mondo, la ho anche sperimentata: quella vera (qualcosa va storto e non ci si può fare nulla) e quella finta (qualcosa sembra essere andato storto senza che ci si potesse fare nulla). Curioso, ma meramente aneddotico, poi, che nella mia biografia abbia creduto alla “sfiga” quando non avevo ancora avuto significativi e veramente duri colpi della sorte. Al liceo andavo facendo sempre la stessa strada, avendo in tasca determinati oggetti, guardando determinati punti della città ed evitandone altri, circondato da compagni che (lo vedevo con certa curiosità) entravano in chiesa ogni mattina, o in determinate occasioni, dicevano determinate frasi e ne evitavano altre, evitavano addirittura certi bidelli o se li incontravano ti toccavano recitando formule esorcistiche, compivano strani e bizzarri rituali che poi erano anche ripresi e riabilitati da quei filmacci definiti comici e tipici solo di questo piuttosto schifoso paese. Sono passato per questo stadio, immerso in una esistenza noiosa, atterrita e servile, per fortuna, per non troppo tempo. Presto ho scatenato la mia vera natura, me ne sono liberato. Di colpo mi sono svegliato buttando via con disgusto tutto questo montone di immondizia e catene, iniziando al contempo a nutrire in me un astio e una insofferenza feroci verso chi alimenta e propizia tali scempiaggini. Astio e insofferenza che sono andate crescendo col passo del tempo, specie dopo l’assunzione di un punto di vista più chiaro ed oggettivo sulle cause vere e sullo svolgimento di determinate vicende apparentemente maledette dal turpe crisma della “sfortuna”. Il fatto è che nel paese dove sono nato molti degli esisti delle attività che si realizzano appaiono come inspiegabili, attingendo, per comprenderli, unicamente a dati “reali” a disposizione. Vale a dire, e per semplificare, soprattutto alla cura e dedizione con la quale una attività viene preparata e svolta da un agente. Diciamo che, prendendo una situazione tipo molto lineare, tra l’attività svolta da un attore e il raggiungimento di un determinato risultato che dovrebbe esserne la sua normale conseguenza, esiste una maggiore aleatoria discrepanza di quella che i dati obiettivi e concreti che si maneggiano e conoscono porterebbero a credere come verosimile. Questo invade un po’ qualunque attività in qualunque ambito, sin da giovanissimi: dai compiti in classe, agli esami universitari, al lavoro, al successo in ogni ambito, comprese le attività sportive, la burocrazia, le relazioni con gli altri, con l’amministrazione; praticamente tutto. La mia impressione è che se un inglese, per esempio, conferisce all’alea un valore di una unità su cento nella determinazione e previsione di un certo evento, risultato, conseguenza, di cui progetta il conseguimento, un italiano gli attribuisce (e in un certo senso è consono che gli attribuisca) un valore dieci volte maggiore. Eppure in ambedue i posti e in tutto il resto del mondo e dell’universo valgono esattamente le stesse meccaniche e regole fisiche, per le quali è assolutamente certo presupporre che le stesse attività realizzate in qualunque posto debbano (nei grandi numeri) avere esattamente le stesse conseguenze. Ebbene nonostante questa inequivocabile affermazione libera da ogni ragionevole dubbio, a tutti i comuni mortali con carta d’identità italiana succede ed è successo, con una sospettosissima frequenza, esorbitante a qualsivoglia ragionevolezza e regola statistica e scientifica, di vedere distorti i vincoli normali tra premesse e conseguenze. È così! Sono cresciuto e mi sono formato in un ambiente che deve essere definito spaventoso, foriero e fomite di innumerevoli dubbi, paure, insicurezze, timidezza, nel quale spessissimo si vedevano svanire gli esiti necessari di sforzi ben realizzati, e al contempo si contemplavano bizzarri trionfi ottenuti con asserite “botte di culo”, soluzioni inopinate a problemi di alcuni, fronte a insorgere di ostacoli impensati che vanificavano tutto il lavoro di altri. La mia vita è stata piagata da decine e centinaia di compiti in classe con voti mediocri, dinanzi a voti eccellenti di perfetti imbecilli, incapaci di parlare un italiano minimamente corretto o di dire qualcosa di interessante, esami poco soddisfacenti a contrappunto di vicende di compagni di studio poco brillanti premiati da una clamorosa buona sorte (l’esame è una lotteria, qui si dice, ma non è vero!), rifiuti lavorativi di tutti i tipi motivati nei modi più rocamboleschi e fantasiosi, opposti ad assunzioni miracolose ed economicamente insostenibili etc. Senza tacere, nonostante la ripugnanza che mi suscita il tema, le lamentele di amici appassionati di calcio, oggi stupidamente basiti dalle dinamiche mafiose presenti in quest’ambito. Assistere costantemente al teatro della distorsione del legame naturale tra sforzo e risultato, sia quando lo sforzo ben indirizzato non dà il risultato, sia quando uno sforzo inconsistente ne dà, crea una anche inconscia adesione al fatalismo, e una passività che danneggiano tutti. Per molto tempo sono stato indotto a pensare di avere una percezione del tutto equivoca (io) del mondo in cui vivevo, e di dover riassettare i miei giudizi sugli altri, posto che coloro che consideravo degli autentici cretini e delle oche, avendo una qualche reticenza, nonostante una forte insicurezza personale, e remora a includermi nel gruppo, erano a conti fatti tutti persone più brave e capaci di me. Ma anche la sorte esiste, ha un ruolo, e grazie ad essa, (e questa volta con il valore corretto di una unità su cento) oltre che un po’ in virtù della mia testardaggine nel voler conoscere le cose, e ad azzeccate scelte strategiche per ottenerlo, sono col tempo venuto a capo dell’occorso nella maggior parte delle situazioni che il mio scettico intelletto vedeva come anomale e che tutti rubricavano come appartenenti all’universo dell’imponderabile (sfortuna, fortuna). La sorte non c’entra assolutamente nulla. Il fatto è che in Italia si chiamano “fortuna” e “sfiga” i frutti di intrallazzi e mafiate così capillari e diffusi che arrivano a condizionare terribilmente la vita di tutta la popolazione. Le botte di culo non sono tali, sono il frutto di bustarelle, padri e madri pessimi che regalano ai figli esami universitari e concorsi, telefonate, accordi occulti, fregature date a ignari poveri diavoli, favori, schifezze varie, leccate di culo, etc. Tutte pratiche che ovviamente si conoscono e riconoscono, non è che stia qui a scoprire l’acqua calda o a far mostra di una mia speciale ingenuità che sarebbe vicina alla cretineria, ma probabilmente molti non sospettano possano essere così massicce e frequenti, entrando in così tante piccole situazioni da arrivare a incidere inconsciamente persino sulla rappresentazione del mondo che un italiano possiede. Tutti infatti occultano le proprie furberie pensando di possedere magari un segreto esotico e inconfessabile e non hanno idea delle proporzioni esatte del fenomeno. Io stesso solo anni dopo ho saputo le circostanze concrete e visto coi miei occhi come vanno le cose, dove impensabilmente persino al liceo ochette quindicenni probabilmente avevano le versioni la sera prima per intercessione genitoriale (sì, forse solo la sera prima, perché altra caratteristica dell’italico medio è il dover alimentare la scomodità per lenire il proprio anabolizzato senso di colpa). La segretezza nella quale ciascuno cela i propri intrallazzi, non fa apprezzare la dimensione del problema, convinto ciascuno di essere tutto sommato una privilegiata eccezione. Vista una goccia d’acqua, se non sei troppo limitato, puoi già immaginare che esista l’oceano, visto il tuo piccolo pezzo di mondo, con uno sguardo sincero e completo, puoi sapere come funziona a grandi linee il resto e farti le tue belle proporzioni. Se ci sono differenze fondamentali e macroscopiche tra un posto e un altro, non si tratta di “sfiga” di uni e “culo” di altri, si tratta, per uni di aver fatto scelte sbagliate, per altri azzeccate. E qui sono stati, per decenni, fatti errori tremendi di cui hanno beneficiato unicamente degli escrementi umani. In poche parole s’è erta e mantenuta una serie di deleteri e infausti, anacronistici meccanismi clientelari che ha del tutto pervertito e sconvolto, nella percezione di tutti, la sequenza normale degli eventi di un intero paese fino a renderlo non solo unico nel suo genere, ma instillando nella sua popolazione una passività e un fatalismo, una fifa e una incapacità ad affrontare gli eventi, che non hanno eguali altrove (sempre parlando di Occidente). Così tutti si affidano passivamente e stupidamente all’imponderabile, non si sentono autonomi, soggetti di diritto che possano vantare e pretendere qualcosa (un successo in virtù di un impegno) ma supplicano questo o quello o forze fantasiose. I più furbi questo o quello in privato, e poi le forze fantasiose pubblicamente, i più soli e derelitti le sole forze fantasiose. Tutti sono costantemente spaventati da situazioni che possono ribaltarsi, torcersi, o mai nascere, abortire, per ragioni ignote, che vengono ricondotte all’azione di queste “occulte forze universali”, mentre invece sono il frutto di manovre umane (occulte), di gruppi di potere, massoni, ecclesiastici, mafie, famiglie potenti, burocrati, corrotti. Tutta gente che non vuole e a cui non conviene altro che far credere che tali forze esistano ed agiscano, per sviare l’attenzione lasciando indisturbata la mano invisibile che loro manovrano. Non deve certo essere un caso, no, non lo è, che proprio qui ci sia oltre alla massiccia paura della sfiga anche il Vaticano, la massoneria e la mafia, gruppi che, seppure diversissimi tra loro, su dei punti hanno qualche similitudine: la perversione di regole semplici e lineari manovrando nel buio e lasciando la popolazione in una ignoranza (e fomentandola) che gli conferisce potere e margine di azione. Persino quello che potrebbe essere considerato (lo riconosco anche da non credente, per carità!) un alto fattore tipico dell’umana natura, il senso del sacro, in Italia non vive che nella sua piccola, patetica parodia: la superstizione, dove si vedono orde di rincoglioniti ancora dietro a Santi e statue, oggettini e ammennicoli che potrebbero spaventare o attirare l’attenzione solo di ignari legnaioli di secoli or sono. Ed eccoci a dover constatare il pubblico ludibrio di popoli più avanzati, a fare la figura dei buffoni in giro per il mondo, i pagliaccetti che fanno le corna, passano la vita a dirsi “in bocca al lupo” e urlano mettendo le mani avanti se ascoltano la frase “buona fortuna”, si palpano i genitali, evitano gatti e scale, hanno sempre studiato poco prima di un esame, rispondono sempre, al massimo con un “non c’è male” al un bel e allegro “come va?”, comprano corni, baciano pezzi di pietra, croci, anelli, ferri, hanno fifa di dire di stare -e persino di stare- bene per non attirare su loro ire varie, invidie, punizioni. Quindi mentono, raggirano, sono pietosi, non fanno altro che la figura dei mentecatti ovunque per il mondo e dinanzi a loro stessi, che sanno di essere schiacciati dalla loro dipendenza dalla paura. E poi, il peggio quando ci si mette di mezzo il sapientino di turno, per non parlare del prelato! Ricacciando alcuni magari le famose battaglie romane vinte o perse, gli auspicia, le interiora degli animali, gli aùguri, come se io fossi un romano antico, non mi fossi mosso da lì, se avessi bisogno sgozzare bestie e guardare trippe per mandare avanti le cose. Pietoso! Anche la paura della sfortuna è un riflesso di quella idea nefasta sulla quale campa in primis il clero: il senso di colpa. La paura di stare bene, di essere lieti, di pretenderlo e lottare per esserlo. No! Troppo comodo! Bisogna soffrire, stare male, ossessionati dal possibile torcersi del destino se si arriva alla gioia, convinti che si pagherà cara la felicità, la positività. Bisogna lamentarsi, implorare, ma soprattutto essere atterriti. Una popolazione così pavida, spaventata, implicitamente convinta di non poter governare nulla, di essere vessata e sottomessa da forze sovrumane e potenti che bisogna arruffianarsi è una vera cuccagna per certe categorie di parassiti, per loro è bene che si rimanga in questo stato primordiale affinché possano succhiare energie e potere a scapito del paese e della comunità. Inutile parlare del terreno che si va perdendo nel mondo grazie a tali egoiste carogne, discorso che a loro non interessa, visto che si punta sempre al basso, ad essere i primi e i signorotti dispotici di un angolo appartato di mondo dove si fa credere che viga una peculiare fisica delle cose, dove i numeri anche si comportano a modo loro, in modo diverso che nel resto del mondo. 


giovedì 1 marzo 2012

Il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Una speculazione su una diatriba tra “ottimisti” e “pessimisti”.

Come andrebbe definitivamente visto il bicchiere riempito a metà? Nella sua accezione comune un bicchiere è un contenitore realizzato dall’uomo per ospitare una bevanda. Avere bevanda in abbondanza è positivo, la scarsezza della stessa è una disgrazia. Se uno incontra nella sua vita un bicchiere riempito esattamente a metà, (del contenuto che per uso esso suole ospitare in analoghe situazioni socialmente standard compiendo i requisiti di educazione, commerciali e quant’altro) al di là di mostrare inconsciamente, magari prima di rifletterci, una sua asseritamente particolare propensione personale nel soffermarsi su dati positivi (pieno) o negativi (vuoto) della vita, su quale delle due situazioni sarebbe più legittimato a propendere per definire l’avvenimento in modo corretto e razionale? Ebbene se pensiamo al fatto che, (la missione del bicchiere come oggetto), esso è costruito per ospitare una bevanda, si potrebbe a tutta prima pensare che trovare un bicchiere riempito a metà sia deludente, posto che esso è stato costruito per contenere il doppio del liquido che vi abbiamo rinvenuto all’interno ed il bicchiere andrebbe pertanto definito come: “mezzo vuoto”. Sì, ma se pensiamo che l’oggetto viene costruito sì per contenere liquidi potabili, ma che esso nasce vuoto e che riempirlo è un qualcosa di ulteriore rispetto all’esistenza di un bicchiere stesso e alla sua nascita, il fatto di trovare in esso la metà del suo contenuto è una bella fortuna, e pertanto il bicchiere andrebbe considerato “mezzo pieno”. Ok, ma se consideriamo che una volta che il bicchiere entra in contatto con un suo “riempitore” esso esplica la sua “forza contenutistica” in tutta la sua univoca potenza e il richiamo di liquido che emette non consente di fermare legittimamente il suo riempimento a metà a meno che non incorrano gravi e serie ragioni, il bicchiere trovato riempito solo a metà dovrà essere chiamato senza altra sorte “mezzo vuoto”. D’accordo, ma se consideriamo la vita canonica di un bicchiere, vedremo che esso nasce sì per contenere, all’uopo, un liquido potabile, ma che esso rimane per la maggior parte della sua esistenza del tutto vuoto, nell’attesa di venir riempito ed inoltre di solito viene vuotato con una certa rapidità per tornare ad attendere un successivo riempimento che a volte tarda ore o giorni interi, quindi il bicchiere è di solito vuoto e il fatto di imbattersi inopinatamente in un bicchiere contenente del liquido appetibile andrà senza dubbio considerato una fortuna, in termini statistici, e del bicchiere andrebbe senza dubbio apprezzato il fatto di essere, “addirittura mezzo pieno”. D’accordo, ma questo riabilita in certo modo, e trasforma, la considerazione precedente, visto che qui non si tratta di trovare un bicchiere qualunque, ma uno che abbia un certo vincolo con la circostanza di poter essere riempito. Non si tratta, infatti e per esempio, di tirarne fuori uno a caso da un bancale di bicchieri destinati al commercio nella grande distribuzione (e quindi per forza vuoto), o di fare una semplice operazione matematica calcolando la presenza contemporanea di tutti i bicchieri sulla faccia della terra e quella di bevande e di sapere a che punto del riempimento ci si troverebbe facendo una media tra la capacità degli uni e l’abbondanza delle altre in unità di tempo etc., anzi, implicitamente si sta dicendo e deve intendersi che il bicchiere in questione entra certamente in contatto con la situazione di poter essere riempito e che i due opposti estremi (colmo o vuoto) possono immaginarsi, anche statisticamente, come esattamente equidistanti dalla situazione concreta prospettata (il riempimento a metà) che ne è la media, e che in base a ciò il bicchiere potrebbe essere considerato nell’uno o nell’altro modo (mezzo pieno o mezzo vuoto) in termini del tutto simmetrici e indifferenti. In tal modo il vederlo in una o altra maniera non è vincolato ad altro che alla sola aspettativa personale rispetto a una determinata situazione intermedia tra due estremi di piacevolezza e frustrazione. Il corollario di questa ultima affermazione potrebbe essere che si pecca di superficialità nel vedere, come normalmente si fa, un ottimista in chi definisce il bicchiere riempito per metà (come “mezzo pieno”) e un pessimista in chi lo definisce “mezzo vuoto”. Il perché si pensa questo sta nel fatto che il primo saprebbe soffermarsi sul dato positivo della circostanza in cui si imbatte e prediligere tra i due estremi egualmente possibili e opposti (bicchiere vuoto o pieno del tutto) il lato positivo della circostanza stessa, la presenza di una metà di liquido e non l’assenza dell’altra metà. Al pessimista si dice esattamente il contrario: si sofferma sulla circostanza negativa. Vale a dire: tende a vedere con più forza ed evidenza i contorni negativi di una circostanza media tra due estremi. Ciò parrebbe ineccepibile, tuttavia se il punto della questione sono in un certo modo le aspettative personali di un soggetto rispetto a una situazione immaginaria e astratta equidistante tra due estremi, uno positivo ed uno negativo, si potrebbe pensare proprio il contrario di ciò che pare intuitivo ed evidente, cioè: che uno sia tanto ottimista in vita da aspettarsi un bicchiere pieno e che da ciò derivi l’atteggiamento di certa delusione nel trovarne uno riempito "solo" a metà e che per ciò gli salti subito e per prima alla vista la mancanza di bevanda. Pertanto sarebbe il disappunto a spingerlo a manifestare implicitamente un certo scontento. Viceversa chi di solito campa con basse aspettative (quindi in certo modo è pessimista e per questo più refrattario alla delusione) essendo propenso a pensare che il bicchiere apparirà tendenzialmente più vuoto che pieno si sorprenderà positivamente del contenuto e sarà su quello che soffermerà l’attenzione, preso da un moto di allegria. La situazione del famoso bicchiere (già) mezzo pieno o mezzo vuoto è dunque poco adatta a far emergere l'ottimismo di un individuo, mentre semmai lo potrebbe essere il sapere come ciascuno si immagina il futuro bicchiere che apparirà. Sempre considerando però che le doti divinatorie di ciascuno sono solo indice dell'intelligenza e frutto dell'uso razionale dei dati a disposizione nel presente laddove l'attitudine interna dell'essere pensante in nessun modo potrebbe trasformare la realtà.