sabato 22 ottobre 2011

BREVE STORIA DELLA MORTE NELLA MIA VITA (e alcune ripercussioni) Part. I

Fino all'età di cinque anni non ebbi un contatto diretto con il concetto di morte. Oltre a ciò che forse c'è di innato in ciascuno di noi, mi pare di ricordare che ne avevo una cognizione molto vaga, avevo ascoltato la parola e avevo capito che essa aveva a che vedere col non essere più presenti e l'essere da un'altra parte. Avevo chiaro che non era propriamente una disgrazia o una tragedia posto che mi era stato univocamente proposto come certo che, abbandonato un posto e tutte le persone che continuano ad abitarlo, si finiva in un altro e che esso era infinitamente migliore dell'anteriore, sempre qualora la persona avesse fatto solo del bene in vita e io ero buono buono. Qui finiva tutto quello che sapevo e lo prendevo per certo senza discutere. Poi quando avevo cinque anni morì mia nonna paterna. Era stata molto male poverina e mi ricordo che quando mi dissero che non l'avrei più rivista mi dispiacque molto, capii che questa cosa di morire era dura per chi rimaneva e pensavo che non mi sarebbe mai andata via la voglia di rivederla e la tristezza per non poterlo fare. Tuttavia ero contento per lei, perché qui lei, ormai, stava sempre male e mi avevano detto che dove sarebbe andata a finire, invece, si stava solo bene. Non avevo dubbi che sarebbe andata a star bene perché era molto buona, e questo lo sapevo con certezza, la conoscevo bene. Vedevo tutti tristi però, come me o anche peggio, volevo essere utile, allora ricordo che andai da mia madre che stava piangendo in cucina e le dissi che non c'era da piangere tanto, che dove era andata nonna sarebbe stata meglio e che quindi anche se ci mancava dovevamo solo essere contenti per lei. Pensavo che avrebbe cambiato umore, lei però mi guardò con un sorriso annuendo, ma non smise di piangere. Non insistetti, ma rimasi perplesso. Neppure per un millisecondo mi venne in mente che mia nonna non fosse stata buona, e che ci fossero dubbi sulla sua ubicazione da defunta, e infatti non ce ne erano, piuttosto pensai che qualcosa di questa storia “dell'andare da un'altra parte” e dello “stare meglio” non doveva essere del tutto vero. Un paio di Natali dopo, se non proprio quello successivo, io aspettavo con ansia Babbo Natale, avevo chiesto un bel po' di cose: fucili, pistole, Lego. Di solito arrivavano perché, non lo sapevo, ma eravamo benestanti all'epoca. Io pensavo solo di essere abbastanza buono da meritarmi quello che chiedevo e che quelli che mi parevano buoni come me, ma non lo ottenevano, dovessero avere qualche segreto inconfessabile. M'ero creduto ben bene tutta la favola, mi piaceva parecchio, sia lui che la Befana, anzi lei anche di più, ma da quell'anno mi ricordo che mi faceva pensare a nonna e mi rendeva un po' triste. A scuola la maestra ci faceva fare temini sul Natale, ma era una socialista vecchio stampo mi sa, non amava affatto né l'irrazionale né il fantastico, e ci aveva detto che né Babbo Natale né la Befana esistevano davvero, ma erano invenzioni dei nostri genitori e che erano loro che compravano i regali e li mettevano sotto l'albero. Io non ci credevo perché credevo più a quello che dicevano i miei che a quello che diceva la maestra, mi fidavo. I miei compagni di scuola allora mi prendevano in giro perché a loro i genitori avevano detto la verità dopo che la maestra li aveva spinti a farlo e i miei invece no. Ho sempre avuto un carattere focoso, anche se ero l'unico che difendeva quella posizione mi prendevo a botte per discussioni del genere quasi quotidianamente da un certo punto, da novembre, in poi. Alla fine la situazione non era più sostenibile e i miei mi fecero un discorso per farmi digerire la verità. Mio fratello non fece una piega, io invece la presi male, come al solito piansi, e mi arrabbiai pure, apparentemente perché mi rodeva esserci cascato e di aver difeso una cazzata e che gli altri avessero ragione e io no, ancor più apparentemente perché mi dispiaceva che Babbo Natale non esistesse davvero, un po' più profondamente perché mi dovevo sentire deluso dai miei genitori che mi avevano mentito, ma credo che a nessuno venne in mente quello che a me invece mi si collegò all'istante nel cervello: se aveano mentito su questo potevano averlo fatto in chissà quante altre occasioni e sopratutto rispetto a quella cosa che già mi aveva suscitato tanti sospetti: quello che era successo a nonna e a dove era finita. Iniziai lì ad odiare visceralmente le menzogne, il mentire, la gente che finge, gli inganni, non l'ho mai potuta superare 'sta cosa. Ricostruii a ritroso le scene viste, e tutti quei pianti di mia madre mi parevano ormai un indizio fin troppo evidente del fatto che anche quella era una storia inventata, anche se supportata da decine e decine di persone, preti, catechisti e se neppure la maestra ne avrebbe dato una versione diversa. A me ormai la cosa non mi convinceva più affatto. Iniziai ad essere molto interessato al tema della morte anche se, essendo all'epoca piuttosto ipersensibile, gli stimoli esterni mi facevano un male eccessivo e quindi dovevo stare attento. A volte anche la bellezza è stata intensa sino a far male. Lì per lì mi rimase da affrontare il problema più grande, quello del distacco e la paura che esso potesse ripersi con persone alle quali tenevo anche più che a nonna. Era poco probabile che sarebbero morte a breve perché giovani. Chiedevo spesso rassicurazioni, ma l'incertezza rispetto a se avrebbero compiuto o meno tutto l'arco di una vita media mi dava molta angoscia. Il fatto che tutti si potrebbe morire in ogni momento mi spaventava molto. Per anni ebbi la strana sensazione che in vita avrei sofferto una perdita grave e che avrei pianto assai. Senza sapere la parola mi pareva una chiaroveggenza per quanta forza aveva questo sentimento. Iniziai a piangere pensandoci su quando ero ancora un moccioso, mia madre mi chiedeva che avevo e io non dicevo nulla, perché sentivo che sarebbe stata lei ad andarsene, forse mi influenzava il fatto che vedevamo Remì alla tv. Allora la abbracciavo e piangevo ancora più forte, perché sentivo che mi voleva bene, mio padre diceva che ero un debole e si innervosiva. Quando facevo le medie morì la sorella della mia professoressa di italiano, andavo un anno avanti, ero al primo anno. Io la signora non la conoscevo affatto e la mia professoressa poco. Ci portarono al funerale, non era certo una bella giornata, ma io non ero triste, non sentivo nulla, ma feci finta di essere addolorato perché mi vergognavo a non sentire nulla per qualcuno che era morto. Mi sorprese molto in me stesso questa indifferenza per gli altri esseri umani, un po' mi spaventò. Alcuni lì si disperavano, ad altri non gliene importava niente, si vedeva chiaramente. Mi parve stupido che fossimo tutti lì insieme, accozzati, che esistessero i funerali, non ho mai cambiato opinione. A casa raccontai la giornata e dissi che avevo fatto del mio meglio per sembrare triste, ma che non era proprio vero che lo fossi ed era stato difficile. Pensavo che mi avrebbero detto che non era bene non essere tristi dinanzi a una morte, ma lo confessai solo perché il mio comportamento non mi era sembrato molto esotico, anzi, piuttosto diffuso, altri bambini addirittura non avevano fatto altro che scherzare e strattonarsi per tutta la messa. Se avessi avuto il sospetto di essere l'unico ad essere tanto cattivo non avrei detto nulla. A casa mi risposero che non era affatto necessario fingere di essere dispiaciuti e che era normale che non sentissi nulla di speciale per la sorella della mia professoressa di italiano. Mi sentii sollevato, ma rimasi perplesso lo stesso, mi sorprese che fosse così pacifico per i miei che si può essere indifferenti agli altri e non lo vedessero come un problema e mi fece paura che degli estranei avrebbero potuto scherzare se fosse morta la mia mamma. Mio nonno materno era un medico legale e un uomo con una personalità sui generis. Giocavamo molto era un vero genio, faceva il cinico, era anticonformista, blasfemo, per me era l'unica persona con “le palle” nel senso che a me pareva interessante di tale concetto, che all'epoca si esprimeva con altre metonimie. Mi interessava un sacco il tema della morte, lui era la persona giusta, gli chiedevo sempre una caterva di cose. Rispondeva sempre, a volte con teorie strampalate, altre con esattezza scientifica, spesso se la rideva, sghignazzava, prendeva in giro. Io mi aggiravo con mio fratello piccolo per il suo studio pieno di volumi, tra i barattoli di reperti in formalina e le foto polaroid di autopsie ed esumazioni, le guardavamo di nascosto, i cadaveri marroni, viola o neri, gonfi, con gli occhi gialli, bestiali, il sangue dai tagli, gli arti amputati. A volte senza che se ne accorgesse prendevo i libri per vedere le figure e leggevo per cercare di capirci qualcosa, pure mio fratello veniva e ci faceva schifo quello che vedevamo, però a tutti e due ci attirava pure. Visto il mio interesse, a volte nonno iniziò a portarmi alle autopsie: incidenti di solito, trattori rovesciati, auto, moto. Una volta andammo da un ragazzo tossicodipendente che si era suicidato all'ospedale con le cordicelle verdi delle tendine, quando al liceo rividi quelle stesse cordicelle ci ripensai subito. Entrammo, lui era appeso, gli diede un'occhiata con la polizia e i carabinieri. Non era la prima volta che ci provava, questa volta ci era riuscito, per conseguirlo s'era legato uno dei polsi a un passante dei pantaloni, così gli rimaneva libera solo una mano e non si sarebbe potuto togliere il cappio. Era una scena molto triste, io mi fingevo di non rendermene conto del tutto perché a casa si parlava male dei drogati, ma mentre tutti scherzavano e facevano battute idiote che mi stavano irritando molto, mio nonno non disse una parola fuori posto. Rimasi molto sorpreso, quasi non lo riconoscevo, perché faceva sempre lo scemo e pensavo che avrebbe partecipato alle battute rendendole ancora più eccessive e grottesche, e invece no. Mi sembrò un grande, francamente! Mi piacque molto che stesse più come mi sentivo io, che come si sentivano quei burocrati di merda e che non ci scherzasse su. La mia attrazione per il macabro prese sentieri più o meno consueti, iniziai a sentire black metal, a vestire di nero, vedere film splatter, horror, ma anche a studiare culture antiche focalizzando sopratutto il valore che attribuivano alla vita e alla morte, i loro usi e costumi funerari, cercando un'estetica che mi soddisfacesse. Mi inclinai per i vichinghi. Avevo già maturato un'avversione spiccata per le storie cristiane in proposito, ma per anni non ci fu che calma piatta, non moriva nessuno in modo davvero doloroso, abbassai la guardia. Poi si concentrarono vari lutti, in pochi mesi, e di botto se ne andò mio fratello. Un anno più giovane di me, il primo che avrei salvato se avessi potuto, lo mandai affanculo quando uscì di casa e non ebbi mai il tempo di rettificare, dirgli che stavo solo scherzando, lo sapeva. Cambiò tutto. Il dolore andò oltre ciò che avevo immaginato e mi aveva spaventato tanto nell'infanzia, per anni pensai che non ce la potevo fare a stare senza di lui e che non avrei mai dominato la mia voglia di stargli vicino ancora e la tristezza. Fu incredibile, mi sentivo solo e capii che per quanto sia comune a tutti l'essere soli nell'esistenza, è un po' semplicistico vederla così. Di quell'episodio ho una qualità di ricordi molto diversa da tutti gli altri della mia vita, alcune cose le tengo stampate in mente con un nitore senza paragoni, altre sono vaghe e sfumate fino al punto da dubitare che si siano mai verificate, sempre che sia “vero” che il passato si sia mai verificato in alcun momento. Non piansi, mi chiesi se mi ero indurito dopo tanto tempo, ma non era questa la risposta. Anni dopo, quando ebbi la forza di pensaci su, dopo una lunga convalescenza della quale nessuno si rese conto, capii che la vera angoscia e la vera paura vengono dall'immagine futura del male, ma non tanto dal suo effettivo concretizzarsi. Quando esso arriva, è contraddittorio dirlo così, ma si rimane immobili, pietrificati e al contempo si inizia a lottare, ma come lotta un vino nella botte che fermenta. Forse è lì che si vedono veramente “le palle” e tutti possono sorprendere, anche noi di noi stessi ci possiamo sorprendere. Una volta nella mischia mi sparì ogni timore, cessò ogni piagnisteo, paradossalmente non era più tempo di frignare. Ero solo, mi presi del tempo, anni, vagai, ci pensai su molto senza parlarne mai, poi un giorno ne riparlai e ora lo sto scrivendo. Percorsi tante strade, osservai il più possibile, per cercare di capire l'inghippo della vita. Sentivo tutto attutito, da lì in poi rimasi così, come se i rumori mi arrivassero mentre ero sott'acqua. Arrivai alla conclusione che in positivo funziona allo stesso modo, anzi, funziona in modo ancor più estremo: una volta che si raggiunge l'oggetto del desiderio esso perde importanza del tutto, la sua luce si spegne. Non è possibile dire che “arrivare” non sa il vero scopo di un percorso, ma semplicemente le cose sono fatte così: tutto è illusorio e insoddisfacente se andiamo a vedere. A volersi ostinare a ragionare con concetti come “lo scopo” forse esso sarebbe semmai “il desiderare” senza prospettive di successo, al di là di esse, una specie di scemo desiderare senza oggetto, una cosa demenziale, simile al gusto del viaggiare tanto per viaggiare, e che è sempre un surrogato di quello che uno a tutta prima si immagina di voler ottenere. Purtroppo chi arriva a questa filosofia smette anche di desiderare davvero e anche per lui tutto perde importanza, come per coloro che arrivati a quanto agognano non fanno altro che agognare immediatamente qualcosa di ulteriore. La differenza è che per il primo tutto perde di importanza in blocco e non nel divenire, si è meno schiavi. Desiderando solo di continuare a desiderare qualcosa, si è anche un po' meno gretti e un po' più eleganti di questa massa di buzzurri pieni di begli e insipidi risultati che, ormai privi di valore, riciclano nella loro vita sciorinandoli davanti agli altri per ottenerne almeno il contentino di sentirsi ammirati o invidiati, ma si è comunque altrettanto delusi o anche di più, immersi nella consapevolezza amara di esserlo. Nulla fa eccezione non si riesce neppure a desiderare davvero una donna che si ha tra le mani. Ho sempre amato solo quelle desiderate senza poter averle o che non esistevano affatto. Per me l'amore sopratutto è un sentimento che non deve avere concretezza. Tra l'astratto e il concreto c'è la differenza che esiste tra i miei due animali preferiti, la tartaruga e il drago: se un drago esistesse alla fine ti renderesti conto che è solo una tartaruga, si materializzerebbe così. Il primo ti piace solo perché non c'è e te lo immagini tu. Se non fosse così le persone non comunicherebbero con tanta frequenza le loro brame in modo tanto intenso e ripetitivo e così i loro successi che pur essendo patetici triviali e noiosi non espressi sarebbero ancora peggio. Il buono di vedere tutto così è che le persone non hanno più il minimo fascino, uno è immune alle personalità altrui, incorruttibile, e ci si sente magari a volte vampiri a volte sacchi di carne, o già defunti e semidei, tutte cose che non hanno nulla a che vedere le une con le altre e che non dicono nulla di preciso. La maggior parte della gente a vederla da questo angolo è noiosissima, tutti li a volere questo e quello e far vedere quanto sono bravi ad ottenerlo. Le persone che si conoscono paiono quasi tutte una sorta di temporanei compagni di strada, arrivano ti si mettono affianco, cercando di farsi notare, ma in effetti a mala pena ci riescono. Si è tutti così presi da sé stessi...! Poi tutti spariscono e chi li rimpiange! Si parla tutti troppo. Non che ce l'abbia con nessuno, è solo che quello che mi si dice non mi interessa poi molto, mi sono abituato dopo tanti anni preso da cose mie, da problemi miei, dovevo pensarci su bene bene e non ho più ripreso a vedere le cose come prima. Mi sono anche liberato definitivamente dell'interesse per gli altri e per quello che è convenzionale, oltre che della paura dell'abbandono e dei suoi effetti. Sono come tutti gli altri esseri umani, preso solo da me stesso e le mie beghe, ma non fingo di no. Gli altri invece mi pare fingano solo per collezionare una platea che li guardi, ma forse non è così e siamo davvero diversi. Seppure è vero con la maggior parte della gente che incroci in vita non intavoli nulla di autentico, e fai solo un tratto di strada nel divenire fianco a fianco ognuno immerso nel suo monologo, ma facendo finta di dialogare, non lo devi dire questo. Siamo alle solite, chi non fa finta irrita, qualcuno di quelli che più fingono cerca sovente di vendicarsi dell'indifferenza e in genere poi ti si dice che sei troppo solitario, ti si danno consigli acidi, dati per insultare, si formulano giudizi sterili, tanto nessuno può esserti utile, ma alla fin fine neppure farti più male. A quanto ho capito la gente apparentemente vuole, vuole, ma non è nemmeno capace di volere quello che dovrebbe se fosse conseguente con le sue stesse premesse: non vuole sicurezza, ma essere rassicurata, non vuole occuparsi di qualcuno ma preoccuparsi per qualcuno, non vuole essere guarita, ma curata, non vuole smettere di piangere ma essere consolata ostentando inconsolabilità assoluta. Pare che in genere non si voglia un determinato risultato concreto, ma una sorta di strana, sinistra, proiezione esterna di esso. Con l'amore e col sesso funziona uguale, che con le auto, le cene, le case, tutto: la gente non vuole essere amata per quello che è, ma per la proiezione esterna di una personalità che non esiste per niente e non pare tanto interessata al piacere quanto al raccontare di averlo avuto, forse per ratificare in ogni momento che non si è così malaccio visto che si riesce ad avere successo. A nessuno gliene frega nulla poi nemmeno di sapere da chi in effetti sia stato avvicinato o addirittura toccato, amato, apprezzato, le sue qualità specifiche come persona. A me irrita stare a sentire gli altri, ma deve essere perché so che quello che loro vogliono io non lo voglio più, mi sono abituato così, e mi fanno sentire strano e fuori posto di continuo, non è piacevole. Tutto viene dalle mie storie di morte. Anche la mia spiccata diffidenza per il genere umano e sopratutto per le donne viene da quelle storie. Con le donne sono più cauto perché corro più pericoli con loro, mi attraggono sessualmente e corro il rischio di toccare la loro pelle nuda, stendermici sopra. Mi piace stare con loro, ma esigo di non saperne nulla di specifico, perché ho la fobia di venire a conoscenza del fatto che come persone non mi piacciono e che sono di quelle che andrebbero anche con quei tipi che ridono delle morti altrui e che sono indifferenti a tutto, che gli importa solo di loro, o che loro stesse sono così. Mi dà sempre fastidio pensare che sono stato abbracciato o mi sono lasciato toccare e fatto aiutare da gente del genere, non ci devo pensare e devo avere la certezza che non lo saprò mai perché altrimenti mi viene la nausea ed il ribrezzo.