mercoledì 7 settembre 2011

Rilievi sulla questione dell'”antivedere” (di Farinata) e la conoscenza degli epicurei una volta giunta la fine dei tempi.


Il problema della conoscenza e quello della “memoria” di un dannato dantesco (o ancor più di un’anima qualunque dei tre Regni dei morti) è immensamente complicato, così come infiniti altri. L’estrema complessità è parte dell'interminabile fascino dell’opera stessa, poiché tra i piaceri che essa regala c’è quello di immaginare conseguenze implicite di alcune sue tematiche alla luce degli elementi che Dante semina nel corso dell'opera. Uno dei più complessi e con i riverberi più intricati e suggestivi, è proprio questo.

I dannati danteschi vivono in un'“aura sanza tempo tinta” (Inf. III, 29) priva cioè di alternarsi di giorno e notte, cambiamenti e storicità. Essi si trovano del tutto relegati al di fuori del mondo storico di cui non fanno più parte. Tuttavia conservano un “sinallagma” con esso, posto che consapevolmente espiano la colpa mentre la vicenda umana procede nel suo divenire e di ciò sono coscienti, sapendo in modo molto approssimativo a che punto essa si trova e conoscendone elementi e momenti. All'inferno, dunque, ci si finisce mentre il mondo "accade", ed il luogo di pena eterno “sta”, infatti, "nel mondo", notoriamente sotto la crosta terrestre, che ospita il punto, il suo centro, più remoto da Dio.

Farinata nel suo dialogo con Dante sostiene di vedere il futuro (mondano) con la vista difettosa di un presbite, Inf. X, 100-105:
“’Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose’, disse, ‘che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano’.”.

Lo vede, cioè, più chiaramente quanto più lontano esso è, e meno nitidamente quanto più vicino, fino ad ignorarlo del tutto in prossimità e durante il suo verificarsi. A questo punto solo notizie esterne possono essere efficaci per conoscere il presente.
La curiosa dinamica della loro conoscenza futura è spiegata in virtù del contrappasso, e forse il fatto di conoscere il futuro in modo difettoso non è qualcosa di specifico degli epicurei. I dannati hanno, infatti, vissuto tutti abbarbicati unicamente al loro presente, pur essendo vero che gli epicurei –tra i dannati, ma anche tra gli eretici stessi- sono specialmente colpevoli di ciò. È probabile infatti che tutti i forzati dell'inferno: in primis conoscano il futuro, prima conseguenza del contrappasso comune tra loro (d’aver, appunto, privilegiato il solo presente storico) e probabilmente lo è pure che tutti ignorino il presente (v. per es. il Rusticucci quando si riferisce al giullare Guglielmo Borsiere, foriero di notizie del presente di Firenze ai fiorentini precedentemente deceduti, che lo ignorano, Inf. XVI, 70-72:
...Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole”.).

Perplessità immani sull’assetto globale ed il funzionamento delle leggi sulla conoscenza dei dannati e la loro memoria sono comunque forti già solo notando come, ad esempio, Virgilio presentandosi ad Ulisse e Diomede (Inf. XXVI, 79-84) formuli una specie di captatio benevolentiae in un riferimento alla sua Eneide (ibidem, 81: …Li alti versi scrissi), opera che i due dannati avrebbero dovuto conoscere dopo la loro morte (come futuro), ma solo prima della sua realizzazione (avvenuta tra il 28 ed il 19 A.C.), e non più all’epoca del dialogo (il 1300 D.C.), così come avrebbero, a quel punto, dovuto ignorare Virgilio come persona, ed al massimo conoscerlo solo per il riverbero della sua durevolissima fama futura, ancora a lungo persistente nell’avvenire del 1300 (quando si realizza il viaggio). Detto ciò però avrebbero dovuto conoscere ancor meglio Dante, la Divina Commedia e la sua fama (ancora future al momento del dialogo), che però, povero Dante, egli non avrebbe mai potuto essere sicuro di ottenere in modo così duraturo (quand’anche è noto che il Poeta fosse consapevole che ne avrebbe avuta cfr. Par. XVII, 118-120:
e s'io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico”).

Ad ogni modo, uscendo da inutili e sterili gineprai dovuti unicamente alla insuperabile condizione umana del nostro amato Poeta, e gli inevitabili ostacoli ontologici insiti nella finzione del racconto, dal dialogo Dante-Farinata esce più o meno chiaro un dato rispetto alla conoscenza del passato di un dannato, cioè che Farinata (ma nessun altro dannato o defunto) non soffre di amnesia, vale a dire egli parla disinvoltamente della sua vita e del suo tempo ricordandoli con buona memoria (anzi a dirla tutta, è noto come egli, al limite della contraddizione, paia conoscere anche quel presente storico che dovrebbe per regola generale ignorare, cfr. Inf. X, 83-84). In merito all'insieme delle conoscenze che riguardano la sua vita ed il contesto storico a lui proprio e quello anteriore ad esso ci sarebbe da chiedersi se la condizione di defunto (e di dannato) gli conferisca alcune conoscenze aggiuntive rispetto a ciò che egli sapeva in vita o se i ricordi siano esattamente gli stessi (vale a dire se da dannato sa esattamente quello che sapeva in vita o se le sue conoscenze del passato si ampliano per il fatto di essere defunto). Ci sarebbe inoltre da questionarsi su se il periodo di condanna infernale che intercorre tra la morte di ogni individuo e l’arrivo della fine dei tempi, intacchi i ricordi e le nozioni contenute in ogni anima o invece li lasci invariati, senza patire, cioè, il degrado, tipico negli uomini, causato nella memoria dal trascorrere del tempo. Infine ci sarebbe da chiedersi se sia invece possibile, ed in che misura, e con che dinamiche, un qualche accrescimento delle nozioni sul passato sopratutto in virtù di dialoghi tra dannati (il futuro prossimo è man mano comune a tutti e si suppone lo ignorino tutti allo stesso modo).

Ammesso che i dannati ricordino il passato, loro proprio, e vedano il futuro in modo imperfetto, perdendo capacità cognitive di quello più prossimo sino ad ignorarlo del tutto al presente, viene da pensare che essi "ricordino" il futuro, proprio all'incontrario di come in terra si ricorda il passato, vale a dire perdendo gradatamente la memoria di esso sino a non averne più traccia e non poter rievocare nulla di qualcosa di anteriormente saputo. Difatti si sta dicendo che i dannati non sanno più un qualcosa che sino ad un certo punto hanno, invece, già saputo, e che quindi hanno "dimenticato". L'idea non è del tutto originale, basti pensare come, nella tradizione classica, anche alle Muse si conferisce la caratteristica di ricordare oltre al passato anche il futuro. In virtù di tale dinamica è coerente pensare che Cavalcanti, che cerca di informarsi sulla condizione del figlio che ha lasciato in terra (Inf. X, 58-60 e ibidem, 67-69), ignorandola completamente quando formula le domande (e sconcertando con esse Dante, ibidem, 70 che perciò tarda a rispondere), abbia in passato saputo con esattezza la data della morte di lui (Guido), ma che ora non riesca più a ricordarla. Il padre al momento del dialogo, deve, quindi, ormai, anche aver perso del tutto di vista il figlio in quel futuro che riesce già ad intravedere fuori dalle nebbie del presente limitrofo, posto che allontanandosi con la mente verso quello più remoto, e a lui più chiaro, non lo vedrà più calcare il mondo, avendo la certezza che da lì in poi sarà, per forza di cose, già morto. Difatti Guido, quando Dante compie il viaggio (si trova lì da Farinata e Cavalcanti il 26 marzo), è ancora vivo, ma morrà a breve, il 29 agosto dello stesso 1300. Fosse morto più in là Cavalcanti non avrebbe dovuto-potuto, verosimilmente, chiedere nulla. Curioso anche notare, a margine del discorso, come nel futuro più remoto il Cavalcanti padre dovrà per forza di cose scorgere che "per altezza di ingegno" Dante supera notevolmente Guido, che era fino all'epoca stato il maggior poeta italiano assieme allo stesso Alighieri.

Detto ciò, se si vuol immaginare cosa i dannati epicurei potranno sapere quando i tempi saranno esauriti (alla fine del mondo e della storia umana), rimangono poche opzioni: riguardo al futuro è chiaro che essi non ne sapranno più nulla, difatti esso andrà svanendo nelle loro "menti", man mano che esso si vada realizzando nel mondo, fino a non rimanerne traccia quando non ci sarà più futuro di sorta. Lo andranno, pertanto, scordando poco a poco ma inesorabilmente (lo afferma lo stesso Farinata, ibidem, 106-108:
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta.).

Tutto il futuro prima conosciuto, e successivamente dimenticato, non dovrebbe poter essere recuperato in alcun modo, o si sarebbe costretti a sostenere che per un dannato il presente è sconosciuto per una sorta di “amnesia temporanea”, il che, tra l’altro parrebbe essere recisamente escluso dal Farinata stesso (loc. ult. cit.). Alla fine dei tempi il presente storico non esisterà più, e quindi i dannati saranno coscienti solo di quello infernale (immutabile). Ma rispetto al passato il discorso non è così evidente, e così neppure lo è immaginare quello che le anime dannate epicuree "conterranno" ancora, in loro stesse di loro stesse e del mondo storico vissuto, per il resto della loro esistenza fuori dal tempo.

Se le memorie della propria vita vissuta da vivi rimarranno intatte, e se essi conoscono del passato solo esse, allora gli epicurei, coscienti solo di esse, rimarranno per sempre solo quello che loro sono stati nella propria vita terrena e saranno consapevoli sempre e solo di ciò (contrappasso calzante, vista la colpa). Se invece la memoria soffrisse (e anche da morti come in vita) delle variazioni, del normale progressivo logorio e perdita di nozioni che tutti conosciamo da vivi, le anime avranno progressivamente sempre meno coscienza e ricordi di quanto vissuto in terra, sino ad arrivare (verosimilmente) ad uno stato di amnesia completa ed assoluta alla fine dei tempi (un curioso flash di questo dimenticare ogni cosa, persino il proprio nome, nel tedio imperituro dell'inferno è nel film di Bergman “L'occhio del Diavolo”, dove un bizzarro personaggio interrogato suo proprio nome da Satana in persona risponde “l'ho dimenticato”). Le anime epicurre saranno, quindi, destinate ad essere del tutto vuote di nozioni e conoscenza alla fine. Forse indizi per smentire questa così dura ipotesi potrebbero ricavarsi da quanto detto da Virgilio a Dante dopo l’incontro con Ciacco al Canto VI, 106-108, rispetto alla “maggior prossimità alla perfezione” dei dannati, dopo aver recuperato il corpo alla fine dei tempi, quand'anche il passo citato non è affatto dirimente, tutt'altro.

Infine, i dannati potrebbero conoscere il passato in modo pieno e completo, interamente (non solo quello biografico, quindi), con il limite, tuttavia, di saperlo solo fino all'ultima nozione appresa in vita, posto che tutto il resto sarebbe stato, una volta morti, nel loro "futuro" e avrebbero dovuto, perciò, averlo già saputo come futuro e successivamente dimenticato in modo progressivo. Ciò però implicherebbe che l'ultimo arrivato degli Epicurei saprebbe molto di più del primo. A questo punto potrebbe immaginarsi che i nuovi arrivati non dovrebbero poter mai comunicare agli altri le proprie nozioni senza rompere una delle conseguenze della pena divina (che essi debbano ignorare il futuro, rectius il loro futuro, al trattarsi di un futuro progressivamente divenuto passato su questa terra). E sarebbe plausibile pensare che dopo l'uscita dalla storia umana non sarebbe più possibile comunicazione tra convitti epicurei (per lo meno di diverse epoche), oppure bisognerà pensare (plausibile anche) che i racconti “de relato” non costituiscano una vera e propria fonte di “conoscenza”. D'altra parte che i dannati parlino e si raccontino fatti lo si sa percerto, v., tra altri, il passo che si riferisce a Guglielmo Borsiere, già citato, così come è frequente che chiedano notizie del presente (per tutti Guido da Montefeltro). È a dirla tutta famosamente curioso che la richiesta di informazioni sul presente da parte di un defunto avvenga una volta anche in Purgatorio dove, neppure, la conoscenza delle anime già salve è scevra da complessità.

In vita gli esseri umani -vivi- ignorano del tutto lo stato della vita ultraterrena (a dir tanto immaginandola), e conoscono solo la realtà storica, mondana. In essa, vivono il presente e lo discernono in base alle loro percezioni sensoriali, ricordano frammentariamente il proprio passato e le conoscenze in esso acquisite, che vanno perdendo “di vista” con il trascorrere del tempo. Infine, immaginano un futuro immerso, comunque, in un grado di più o meno elevata incertezza. Un dannato invece, semplificando all’estremo, (forse) ignora il presente mondano (è consapevole solo del suo proprio e piuttosto immutabile “presente” senza tempo di dannato nella sua esistenza oltremondana, quindi), ricorda un passato biografico suo, e conosce il futuro, “scordandolo” man mano che esso vada confluendo nel presente, quando, poi, lo ignorerà del tutto. La conoscenza mondana di un dannato, dunque si va riducendo con il trascorrere del tempo, posto che il futuro, conosciuto con miglior discernimento quando remoto, si va sbriciolando in funzione della sua effettiva realizzazione sulla Terra.

Mentre nella vita vissuta di ogni essere umano un ipotetico futuro, una volta concretizzatosi in un presente più o meno affine alle aspettative ed alle previsioni di ciascuno, viene poi incamerato in memorie, ed accresce i ricordi, alimenta la conoscenza quindi, in un dannato tutta la conoscenza del futuro svanisce col divenire e non ha possibilità di essere incamerata in altro modo e recuperata. Non potrà confluire in memorie di alcun genere. È per questo che un dannato defunto in una determinata epoca sarà, quindi, con ogni probabilità, da immaginarsi, alla fine dei tempi, come un dannato proprio di una specifica e determinata epoca e solo quello. L’unica maniera di accrescere le proprie conoscenze una volta entrati nella condizione di dannati è quella di avere notizie da altri, racconti, captare nozioni. Ma possiamo immaginare come piuttosto sporadici e laconici questi contatti forieri di conoscenza e tra essi una occasione è proprio la discesa del Poeta all’Inferno. Dante infatti in varie occasioni, come detto, porta notizie del presente e ne parla (v. Guido da Montefeltro, per es. Inf. XXVII), il suo viaggio è però un caso più unico che raro. Altro modo di conoscere l’ignoto sarà, come detto, il dialogo tra convitti di diverse epoche, ma a questo punto, pur ignorando le dinamiche specifiche del caso, viene da ricordare come i dannati eretici siano confinati in sepolcri a gruppi, che alla fine dei tempi verranno sigillati definitivamente, questo potrebbe lasciar pensare che tra i criteri per formare i gruppi vi sia anche quello della appartenenza ad un determinato periodo storico. Per ultimo, forse, altra fonte di apprendimento potrebbe venire anche dalla sporadica comunicazione con i vivi attraverso pratiche negromantiche o spiritiche, e di evocazione, idea non è del tutto priva di senso e bizzarra nell’assetto della Divina Commedia se pensiamo alle parole di Virgilio nel Canto IX e i riferimenti alle Pratiche della maga Eritto (v. Inf. IX, 19-27).

In merito al problema di come si atteggerebbe il “dimenticare progressivo” e totale di qualcosa di anteriormente conosciuto come certo –il futuro per i dannati epicurei- e quindi dello stato e dei meccanismi della loro conoscenza ed intelligenza, si potrebbero formulare alcune prime riflessioni.

Facendo un parallelismo con la nostra attuale condizione umana di esseri viventi, e seguendo la nostra più banale, accettata, schematica e condivisa maniera di “immaginarci” il percepire la realtà sensibile, quella che come esseri umani siamo intuitivamente –o culturalmente- abituati a pensare come indiscutibilmente valida, possiamo farci un’idea delle differenze e delle analogie con la condizione di questi dannati e del loro “stato mentale”.

Siamo soliti pensare di ricordare parti frammentarie di un passato già sedimentato ed immutabile, certo, perchè accaduto e storicizzatosi, di immaginare uno sfuggente e vago futuro, incerto, che va vorticosamente convergendo in un presente (che viene poi, appunto, immagazzinato in memorie) che consideriamo come unica “realtà” effettiva. La realizzazione del futuro, e la sua conversione in presente storico -e dunque in passato-, avverrebbe in virtù del divenire –del cambiamento- in base (tagliando le cose con una mannaia affilata fino all'errore) alle leggi di causalità e (si presuppone visto che ci si considera intuitivamente liberi) delle concrete scelte -anche con valore morale- realizzate dall’essere umano. L'essere umano è immerso in un contesto dai tratti più o meno indipendenti dalla sua flebile volontà, sfuggenti e di cui egli ha una conoscenza estremamente parziale, ed un dominio ancor minore

In merito al fatto che sia il futuro a convergere nel presente e non, viceversa, il presente ad “avanzare” verso il futuro, come, tra gli altri, ha chiarito in modo esemplare anche Borges, v’è da precisare che la prima impressione intuitiva –quella, appunto, secondo cui sarebbe il passato a dirigersi verso il futuro- è piuttosto debole e povera. Ad una appena più attenta riflessione si nota con certa chiarezza come la nostra ristrettissima visione dello stato delle cose ci fa percepire come più descrittiva e corretta la vettorialità del divenire proprio in senso contrario. È infatti il futuro a convogliarsi verso il presente, “morendo”, fossilizzandosi, in un passato che per forza di cose concepiamo come ormai immutabile e pietrificato. È il futuro, vivo, ricco di opzioni, plurimo, incerto, e non ancora realizzato, a ridursi ad unica realtà presente confluendo, per quell’unico canale che è il presente storico, nell'univocità del passato, assolutizzandosi in tal modo, quando precedentemente gli appartenevano tutte le opzioni –i possibili- scartate dalle scelte concrete realizzate da chi ha questa facoltà -quella di scegliere-. In merito, una esemplificazione può venire dalla nota situazione di una partita di scacchi, nella quale ogni mossa giocata non possiede solo lo straordinario potere insito nella sua concreta forza strategica rispetto alla posizione specifica, ma anche e soprattutto l’immane e definitivo effetto di scartare irrimediabilmente tutte le altre opzioni a disposizione del giocatore fino alla sua realizzazione, e con esse anche tutte le innumerevoli disposizioni dei pezzi incompatibili con la giocata realizzata.

Intuitivamente siamo portati ad immaginarci e semplificare la realtà vissuta in modo tale da ritenere che vigano delle leggi di causalità necessaria –naturali- che conformano la realtà fattuale. A volte ci si spinge ad immaginare che, forse, se si conoscessero tutte le cause si potrebbero anche, usando l’intelletto, prevedere tutti gli effetti (per inciso, prima e immediata critica a questa visione semplicistica dell’esistente, solo per brevemente fornire uno spunto, viene già dall'osservazione che l'intelletto umano, che dovrebbe comprendere le cose, essendo inserito nella dinamica causale oggetto del suo “studio” è esso stesso “causa tra le cause” e nel suo comprendere è a sua volta agente di cambiamenti la cui comprensione dovrebbe inseguire). La scienza moderna ha ampiamente rivisto e smentito questa intuitiva, ma molto riduttiva, costruzione e rappresentazione pressoché meccanicista della realtà, che non soddisfa anche senza arrivare a menzionare -o al di là de- la questione dell’esistenza di una autonoma e tipica “opzione di scelta morale” dell’essere umano, o l'esistenza di mondi paralleli che esauriscano “i possibili”. Nonostante tutto, quella causale -e poi anche morale- parrebbe essere l’unica costruzione davvero convincente per un essere umano e per il suo assetto cerebrale, o l’unica nella quale egli possa muoversi a proprio agio, illudendosi di riconoscersi e conoscersi. Prendiamola dunque per buona ai fini di questo limitato discorso sulla conoscenza del futuro di immaginari dannati epicurei.

Ebbene, in base a quanto intuitivamente percepito da ciascuno di noi, i limiti della conoscenza umana in merito al passato nel suo insieme comportano che, non conoscendosi tutte le cause -ed essendo noi stessi, appunto, causa tra le cause-, si disconoscono anche gli effetti nel loro dettaglio, e per tanto il futuro rimarrà sempre incerto, nebuloso ed imprevedibile. Una mente che fosse capace di conoscere tutte le cause in modo minuzioso ed esaustivo, parrebbe poter avere i presupposti per riuscire ad immaginare in ogni minimo particolare gli stati successivi di quanto conosciuto.

Un essere umano, quindi, non conosce il futuro ma solo lo immagina, giacché conosce solo una parte limitatissima del passato -e del presente- ed in base ad essi si orienta, sia nel prevedere sia nello scegliere, (e nell’ignoranza rimane, sia che scelga sia che si illuda di scegliere).

Un dannato epicureo dantesco, invece, non vivendo più un autentico “presente” in divenire, ha immagazzinato, nella sua specifica identità individuale, un passato (i cui contorni specifici non sono, come detto, chiarissimi, ma che forse converrà immaginare come quello proprio biografico suo) e possiede la conoscenza di quel futuro remoto che si va dissolvendosi man mano che esso va concretizzandosi nella realtà storica. Alla conoscenza del futuro però non sono posti limiti, e quindi è lecito pensare che esso sia scrutabile sino alla fine dei tempi, ed in ogni suo aspetto (Farinata sa del futuro di Dante, e così pure Ciacco, o Vanni Fucci per es.).

Una strana e curiosa situazione da notarsi su questo assetto, sarebbe che la “distanza” temporale tra la (immaginiamole immutabili) nozioni storiche del proprio passato biografico del dannato –identità individuale compresa-, e le conoscenze del futuro andrà inesorabilmente ampliandosi col passo del tempo. Il dannato, per tanto, prima di non conoscere più nulla del tutto, al sopraggiungere della fine dei tempi, conoscerà un determinato passato storico suo proprio ed avrà, al contempo, cognizione esatta di avvenimenti e circostanze future di epoche lontanissime dalla sua esistenza mondana, piena di dati, oggetti, situazioni, costumi a lui del tutto estranei, quindi. Di tali epoche egli conoscerà, quindi, modi, costumi, oggetti, senza però poter risalire a ritroso sino a individuare il cammino certo attraverso il quale si è arrivati alla condizione che vede con chiarezza, e senza poter riportarla e farla combaciare col proprio passato biografico.

Se in vita, un essere umano, in base alle sue capacità intellettive e conoscenze del momento -tutto quello che ricorda, che non ha dimenticato, quindi- riesce ad immaginare ed ipotizzare (con un più o meno alto grado di errore, e secondo le capacità e le circostanze di ciascuno) un qualche futuro, si potrebbe immaginare che, a ritroso, anche un dannato epicureo potrebbe farlo in merito a quel presente storico, che ignora, ed anche rispetto a tutto quel “futuro” (dal suo punto di vista di trapassato di un determinato momento) già concretizzatosi nella vicenda umana: quel futuro, ormai divenuto passato, che era nel suo “futuro di defunto”, ma che poi si è andato realizzando e che, quindi, egli ha saputo, ma poi ha anche “dimenticato”. Rispetto a tale periodo temporale, il presente storico-mondano e quell'”ex futuro” -ormai sedimentatosi nella storia umana, ma successivo alla sua morte ed ormai inconoscibile per l’epicureo- saremmo propensi a credere che il dannato potrebbe “immaginarlo” ricostruendolo a ritroso a partire da tutto quel futuro –ancora non realizzatosi sulla terra- che egli può ancora discernere con buona vista. Un dannato epicureo, quindi, sarà certo di avvenimenti e situazioni ancora incerte, immerse nella libertà morale degli uomini futuri, mentre ignorerà la realtà storica già accaduta, vera, concreta, posteriore alla sua morte.

Chiaro che se così funzionasse una mente dannata, immersa nella sua specifica condizione, dovremmo arrivare a pensare che egli debba conoscere il futuro storico in modo lacunoso, imperfetto, posto che se avesse visione chiara e completa di tutti gli effetti futuri, e potesse contenere tanta conoscenza, potrebbe anche ipotizzarsi che possegga implicitamente le capacità di risalire da effetto ultimo a causa, con ciò ricostruendo il passato interamente, fino a farlo collimare e combaciare col suo proprio passato storico. Ciò a maggior ragione se consideriamo che la cesura esistente tra mondo terreno ed ultraterreno non lo renderebbe per nulla “causa tra le cause” di questo.

È quindi probabile che un dannato epicureo abbia una cognizione del futuro generale, magari anche corposa, ma non assoluta, visto che la sua caratteristica (già umana) di ragionamento non parrebbe, nella versione dantesca, renderlo capace di ricostruirne gli antecedenti con totale certezza. È anche possibile pertanto che così come in vita si immagina il futuro (conoscendo il passato ed il presente in modo imperfetto) in dannazione si “immagini” quel “futuro ormai passato” (storicamente avvenuto) e dimenticato, avendone una visione del tutto priva di effettivo valore conoscitivo, ma fantasiosa, incerta. Ciò, comunque, è piuttosto curioso da immaginare in ottica storica umana, visto che ci troveremmo dinanzi a persone con una loro specifica identità sia personale che storica, che durante tutto il tempo della realizzazione della vicenda umana staranno immaginando un presente ed un passato già determinati, mentre sapranno con certezza tutto ciò che ancora è nell'indeterminatezza della effettiva realizzazione su questo mondo. Inoltre essi conosceranno meglio tutto ciò che più si allontana dal loro –indimenticato- tempo di vita vissuta, ma non ciò che è a loro più vicino. Avranno dunque confidenza e cognizione di tecnologie, teorie, pensiero, costumi, oggetti avvenimenti, assolutamente distanti dal loro tessuto biografico, perdendo progressivamente la traccia delle origini di tutto ciò nella storia umana, ed il percorso evolutivo nel quale essi si sono sviluppati.


Nessun commento:

Posta un commento