lunedì 19 settembre 2011

IL MONDO NUOVO


Liberatici delle scorie di un pietoso vello morale autolesionista e violento si è oggi creata una società più giusta, eroicamente giusta ed eguale. Era così evidente quello che si sarebbe da sempre dovuto fare, ma per quanto tempo nessuno lo ha avuto chiaro? Tutti gli esseri umani soffrivano per qualche ragione, tutti se ne dolevano e cercavano ovunque di rimuovere le cause del loro malessere. Spesso si affidavano a leggende, a fantasmi, a idiozie varie, e solo di rado riconoscevano il vero: la gratitudine alla scienza, al suo ruolo di imperfetta salvatrice. Poi, di botto, si è riusciti a fare un passo ulteriore contro il male, a sconfiggere i peggiori di essi: la sofferenza fisica e le diseguaglianze. Oggi grazie ai controlli genetici nascono solo persone perfettamente sane, belle, non esistono più insufficienze, inadeguatezze, brutture, inefficienza. Qualcuno protestava all'inizio, come sempre era successo ai vecchi esseri umani, paurosi di tutto, contrari a tutto, a volte in mala fede, o stolti, univoci, sempre così falsamente rassegnati o innamorati delle loro gobbe e pustole. Ma gli illuminati lo hanno capito subito, poi anche tutti gli altri: che non è giusto che nascano infelici per rendere un po' più felici coloro che confidando nella rarità delle loro doti fisiche riescono a primeggiare. Questa crudeltà è finita. Questo scempio, questo egoismo insano sono parte di un passato considerato orrendo. Oggi, certo, è scomparso lo sport, tutti sappiamo fare qualunque gesto atletico allo stesso modo, tutti ne siamo altrettanto capaci, siamo altrettanto dotati, tutti belli, tutti sani, alti, forti, sicuri di noi. Sono scomparse anche tante neurosi, aggressività, il quoziente intellettivo è aumentato, le nascite sono controllate, nessuno mette al mondo figli prima di avere garantito il posto per poterlo crescere in modo adeguato al suo completo sviluppo. Nessuno soffre mai fisicamente, se non per incidente e la sicurezza è divenuta la prima tra le cure. Oggi ci pare spaventoso pensare anche solo di dover subire un'operazione chirurgica, una carie, o essere miopi, o grassi, o calvi. È solo da poco che siamo giunti a questa inedita situazione umana, ma già risulta così impossibile rinunciarvi, sono certo che ci si sente come qualche generazione fa dovevano sentirsi i nostri padri al pensiero di vivere in altre poche prive di anestetici e sterilizzazione dei ferri, o pensare di dover curare una carie senza attrezzature, o amputare un arto in macelleria. Ci si sente salvi, fuori da un mondo ostile e violento, pieno di orrori indicibili. Non è scomparso il gusto. Tutti siamo belli allo stesso modo, tutti intelligenti in modo analogo, eppure ognuno preferisce qualcosa di diverso, tutti abbiamo qualcuno che si inclina a prediligere la particolare mescola di caratteristiche che ci fanno essere unici nonostante la sostanziale uguaglianza del nostro livello psicofisico. C'è anche chi sceglie la solitudine, molti altri la promiscuità. Nessuno trova, però, più brutto nessun altro, mettiamola così, o forse il gusto si è semplicemente affinato, oggi piace una persona determinata in virtù di dettagli che occhi di uomini passati non sarebbero stati in grado di percepire. Nessuno comunque si sente fuori posto, nessuno è emarginato, umiliato, vessato, in imbarazzo, mai, nessuno provoca disgusto o ostilità e non è il contorno di vite di persone più fortunate, non esiste più la spietatezza di coloro che accettavano il rischio di far nascere qualcuno che sapevano sarebbe stato un disgraziato utile ad accrescere il grado di autocompiacimento di qualcun altro. Tutti si vive al massimo oggi, ma senza necessità di ostentare nulla, facendo le attività che preferiamo per la sola ragione di volerle realizzare, occupandoci solo di ciò che ci appassiona davvero e limitando a una parte irrisoria della giornata gli impegni meno interessanti ma necessari alla vita comunitaria. Tutti per un periodo della loro vita raccolgono la spazzatura o collocano prodotti sugli scaffali. Basta ormai poco sforzo per vivere su questo pianeta senza danneggiarlo ed aggredirlo, esagerando il suo sfruttamento. Abbiamo piegato ciò che ci circonda alle nostre esigenze, abbiamo vinto contro quella che veniva chiamata la Natura e dalla quale dovevamo strappare giorno per giorno il necessario per vivere. Abbiamo capito che essa non ha saggezza o intenzionalità ma era un mostro cieco e stolto che ora abbiamo asservito ai nostri bisogni. Abbiamo ottenuto, facendocela da soli, l'età dell'oro. Tutto fiorisce quando noi vogliamo, ci dà abbondanza per poter vivere senza rinunce. L'unico limite è quello del contenimento delle nascite, ma forse in futuro abbatteremo anche questo ostacolo. Con dei ritocchi è stata sconfitta o molto limitata anche la paura verso la morte e l'esistenza è divenuta un concetto neutro: né un bene, né un male, ma certo la piacevolezza del vivere odierno fa sì che molti scelgano di lasciare una discendenza. Con una scelta geniale ci siamo dati una data di scadenza, si sa esattamente il giorno ella propria morte, che è stato fissato al compimento del settantacinquesimo anno di età. Qualcuno avrebbe voluto più vita in virtù del fatto che l'uomo nuovo è più longevo dell'anteriore, ma decidendo così come è stato fatto si è risparmiato all'essere umano di vivere la parte peggiore e più triste dell'esistenza, quella che non vale la pena di provare. Ogni essere umano sa che vivrà per un periodo limitato, lo sapeva anche prima, ma ora che sa anche che al massimo vivrà fino ad un giorno determinato ha cambiato modo di comportarsi, ha mutato il suo atteggiamento. È come se solo ora si sia divenuti consapevoli di dover morire e tutti utilizzano il loro tempo nel modo più piacevole e soddisfacente. L'uomo si dedica alla vita attiva fino al sessantesimo anno di età, poi si ritira, per legge, in ampli spazi verdi, con i coetanei, esercitando le attività che preferisce in una comune e trascorrendo gli ultimi tre lustri in pace e serenità lontano dalle beghe della vita sociale e dalle decisioni strategiche. Per le generazioni future decide solo chi è giovane, gli altri si appartano osservando e dando, ove richiesti, consigli. La vita civile, e i diritti relativi iniziano a quindici anni, si vota e si prendono decisioni, ognuno secondo il ruolo sceltosi e la sua voglia di implicarsi nelle attività comuni, si può proseguire al massimo fino ai sessanta e poi si molla. Oggi l'uomo non è sempre felice, ma lo è molto più di un tempo, non ha paura del piacere, non ne ha paura né ha necessità di compiere azioni per essere ammirato, invidiato, imitato. Il salto evolutivo che si è dato ora è analogo a tutti quelli più importanti della storia dell'essere umano, il fuoco, la ruota, l'industria, l'informatica, o molto di più.

DICHIARAZIONE D'AMORE

Si tratta di un pezzo che non amo particolarmente e che è stato redatto come prova e per definire alcune idee. Tocca in modo troppo confuso e impreciso oltre che un po' lambiccato temi da me già battuti, tuttavia lo pubblico perché trovo che ci siano alcuni spunti che potrebbero essere interessanti.


Quando bacio il tuo labbro pro. fumato, | cara fanciulla, non posso obbliare | che un bianco teschio v'è sotto celato. || Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso, | obbliar non poss'io, cara fanciulla, | che vi è sotto uno scheletro nascoso.
(Igino Ugo Tarchetti 1867)

Siamo giunti al punto in cui dovrei dirti che mi piaci; vincendo ogni reticenza, timore di errare, dovrei dimostrare il desiderio di averti per me e sentirti vicina. Senza complicare le cose né esagerare, anzi, sobriamente, potrei lasciarmi andare in una prosodia vicina a una verità piuttosto piacevole. Certamente lo farei se non avessi pensato a lungo a tutto questo teatro di coppie e ciò che implica desiderare oggi un altro essere umano: un impari confronto con la perfezione di chi non ha carne. Ridotto all'osso potrei dire che mi attrai fisicamente, mi interessi mentalmente e ti vorrei per me. Con questo ci sarebbe ragione sufficiente per provare a stare insieme anche se non sentissi quel trambusto interiore demodè chiamato innamoramento. Sarebbe semplice, non sarei del tutto insincero. È la contemporaneità che complica le cose, la tecnologia che ormai ci ostacola, ci rende obsoleti; e inevitabilmente falsi.
Senti, sono stanco di tutta questa recita ambigua, e dell'estetica odierna, dei vestiti, delle cure e di questi ridicoli abbellimenti posticci che di nuovo, questa volta grazie a te, mi si palesano dinanzi. So che sei abituata a che ti dicano che sei una bellezza, ma guardandoti bene così imbellettata, a me pari una scimmia infiocchettata di raso, sei disonesta, ma anche autenticamente brutta e ridicola. Sono stufo di compiacere e favoreggiare, da complice coatto, quest'illusione “dell'autocoscienza” e che tramite essa ogni assurda pretesa estetica debba venire accolta, assecondata con bonaria rassegnazione, ogni sofferenza o disagio evitato. Per quanto fingeremo ancora? Essa, la coscienza di sé, non è ragione sufficiente per mistificare la realtà, darsi tutta questa importanza, privilegiarsi tanto, in modo così univoco ed esagerato. Pare una scusa! Perché semmai il pensare, il sentirci vivi, questo scemo, sterile rigirare sé in sé stessi ed esserci, per cui tanto ci pavoneggiamo tra l'indifferenza gelida di un universo sordo, condurrebbe proprio a svelare e tacciare di falso una volta per tutte quell'istintivo e testicolare autocompiacimento che, distanziandoci dalle bestie e, prima ancora, assai disonestamente, conferendo dignità anche a quelle, fa di ogni essere semovente una sorta di ammirevole e speciale oggetto di autodevozione e stupore. Non si tratta di te! Tra noi bestie non sei male! Vuoi sentirtelo dire. Non ricattare col disappunto, con la permalosità. Siamo tutti sulla stessa barca, tu non sai cosa vedo allo specchio, non puoi pretendere di essere speciale. Sì, forse all'inizio è un tanto imbarazzante ammetterlo, ma non mi sento certo diverso dalla sintesi bruta di pietanze assunte quotidianamente: un bel po' di grano e porco, quintali di bue, decine di migliaia di uova, bevande isotoniche o luppolate etc., tutto mescolato e ammassato insieme per andare a dire qualche parola insensata, fare rumore e rompere i coglioni al mondo intero con lagne o pretese, provocando disgusto o pena, sovente inespressi. Non la si finisce più di romperci le palle a vicenda, tra noi e a tutto il resto, fino a che all'unisono i consociati e forse l'universo intero non vedono l'ora che crepiamo e che si torni ad essere quello che sì è sempre stati, ma finalmente e di nuovo, in silenzio: un pezzo di sterco terreno che però almeno sta zitto, fango. Taci! Ascolta! È penoso l'essere arrivati a descriverci come angeli, l'aver inventato questo assurdo concetto pur di trovare il modo di paragonarci, in estrema mala fede, a qualcosa di diverso da un pezzo di filetto o un timballo ambulante che deteriorandosi va perdendo grumi di carne a ogni passo: cellule morte, saliva, sudori caldi o freddi, capelli, vello e peli, unghie, cere. L'intero mio materiale che mi forma sarà stato riciclato già chissà quante volte su questa crosta di stella, avendo già assunto chissà quante forme, stato chissà quanti animali, piante, uomini, lodo di chissà che posti: pomodori del sud Italia, verdure che procedono dall'Asia o dall'India, prosciutti spagnoli, nocciole piemontesi, vermi e larve, mosche e batteri, lanzichenecchi o scimmioni primitivi, di sicuro esplosioni nucleari di un antico astro. Nemmeno io sono più quello che ero anni fa e chissà cos'altro sarà, dopo esser transitato per me che da stupido ho istintivamente sentito di appartenere a me stesso in modo esclusivo. Siamo tutti di seconda, terza, indefinita mano, i nostri antenati veri sono mica quei pazzi che hanno copulato accettando il rischio demenziale di farci stare qui, ma tutte le cose o persone che ciascuno dei pezzi che ci compongono sono già stati. Magari qualche mio atomo ha già fatto parte del corpo di un brutale vichingo che ha violentato una monaca in un convento del primo medioevo, o erba che è stata calpestata da una capra sui monti, poi inghiottita. Immaginare ogni opzione ti fa senso? Essere stati altri ti fa tremare il ventre? Avevo già in mente che non fossi sincera, ometti, menti, parli tanto ma taci ora! Fai finta di essere diversa da una bisaccia di pelle piena di orrori maleodoranti, menti pure a te stessa fingendo di confidare nella passeggera giovinezza e dissimulando l'inevitabile con tutte queste cure, cremine e vestitini. Stiamo qui a parlare e far finta di piacerci a sufficienza solo per necessità, per spinta chimica. Simo costretti dalla ricerca del piacere ad essere indulgenti con noi stessi, a far finta di accettarci. Per carità! Continuiamo pure! Non c'è alternativa per il momento, ma si intravede il nuovo cammino forse. È questo che ora mi complica le cose, un tempo esistevano solo le statue. No, per quanto ci si impegni a curare il corpo, a far finta di non emanare odori spiacevoli, dissimulando come fai tu, e noi tutti oggi, specialmente le donne, che parete fingervi estranee anche alla defecazione, non saremo mai di quella eterea porcellana finissima di cui son fatti quei miti digitali, così eleganti, seppur bidimensionali così perfetti, lindi, ma eccitanti. Loro sono i veri esseri umani, o almeno quelli amati, con loro dobbiamo raffrontarci in una lotta impari. Loro che non sentono, non vedono, non esistono nemmeno come tali, miti inconoscibili a loro stessi e algidi, dei sordo-ciechi concupiti, non sanno di esistere, non dicono nulla, non hanno contenuti, sensibilità. Catturati e sorti in un istante per artificio tecnico, da materiale di scarto come il nostro, ma poi sublimati con ritocchi al computer a puro oggetto di feroce e definitiva brama sessuale, libido senza dolori, acciacchi. Questa è la vera alchimia! Oggi sì che si fa del piombo, oro! Meglio, dello sterco, angeli! Questi sono gli esseri che ci piacciono, non noi stessi: non io a te, non tu a me. Nel caso ci fosse ormai un dubbio: siamo ripieghi, perché ancora non posso penetrare la carta o lo schermo con sufficiente soddisfazione sessuale, ma quelli sono i corpi che ci eccitano oggi, i punti di riferimento estetici, erotici. Oggetti di desiderio privi di parola, concetti, contenuti, privi di tutte quei lagnosi, superflui orpelli che di rado si osa chiamare col loro nome. Quelle noiose e petulanti baggianate che facciamo finta ci interessino tanto. Si fa per ipocrisia, per costume, per non dover sentire dagli altri dirci quello che anche noi per gli altri davvero sentiamo e per darci la preoccupata ermetica illusione di essere ciascuno di noi il peggiore degli esseri umani, senza al contempo correre il rischio che l'onesta nostra esplicitazione della verità nella reticenza altrui ci releghi, nel dubbio della sua insincerità, tra gli ultimi, i più perfidi e cinici della nostra razza. Ormai forse dovremmo liberarci di uscite a due come queste, roba da preistoria, e affrettarci a sviluppare sistemi tecnologici per raggiungere il massimo grado di soddisfazione sessuale, magari potenziato da droghe e farmaci, un raffinato onanismo dinanzi a scenari virtuali che conceda piaceri di intensità sconosciuta all'umanità pregressa. Non ci sono sacrifici di sorta da compiere per ottenere tali benefici se non vincere quella stolida paura verso l'edonismo. Sono contrario alla riproduzione, ma a chi voglia perseverare nel credere che esistere sia un bene rimarrà il rimedio della fecondazione in vitro per tirare a campare. Eppure sono pressoché sicuro che una volta spostato il piacere sessuale nel suo autentico campo, finalmente raggiungibile grazie alla tecnica -quello dell'onanismo virtuale- la menzogna della scelta, proposta come virtuosa, della perpetuazione della specie umana e della copula come strumento per assolvere a tale obiettivo, si svelerà. I nati non sono che un danno collaterale del voler raggiungere un orgasmo, spostato quello da un'altra parte, alla buon ora, non nascerà più nessuno. Ed ora che fare? Che rimane a noi due se non quel datato baciare labbra sotto cui sappiamo nascondersi qualcosa di molto più deludente che solo un teschio?

sabato 17 settembre 2011

CHIARIMENTI N° 3: riguardo alla copertina

 

La copertina del romanzo è stata proposta, all'editore e poi al grafico, da me stesso (l'autore); è stata presa in considerazione e poi definitivamente accettata. Ha riscosso consenso solo in virtù del suo contenuto estetico, prima che ne specificassi il senso, ma essa possiede un significato preciso e affine alla storia di cui funge da primo elemento comunicativo.
Dal punto di vista personale ha anche un senso affettivo, posto che l'immagine che campeggia sulla scena viene da una foto, regalo di un caro amico, ma la ragione per la quale mi sono deciso a sceglierla ha un senso più profondo.
Va notato che gli elementi che compongono la copertina nel suo insieme sono fondamentalmente due: la foto e la scritta del titolo. Sono stati accostati in modo tale da creare un effetto piuttosto stridente la cui dissonanza arrivasse in qualche modo anche a chi non fosse subito cosciente di percerpirla.
L'animale raffigurato è infatti una scimmia (un esemplare imbalsamato esposto al museo "La Specola" di Firenze), un primate, quindi: l'essere che per aspetto più somiglia all'uomo e che la teoria dell'evoluzione ci fa immaginare come parente prossimo meno evoluto della specie umana.
La scritta è in carattere imperiale (Augustea), squadrata, rigida, del tipo da intagliare nel marmo. Inevitabile notare in essa un riferimento diretto e inequivocabile ai fasti dell'Impero Romano, reso ancor più evidente dall'uso della lerrera V per la U.
Mettere insieme due elementi tanto distanti sia nel tempo, che nello spazio, ma ancor di più nel concetto: un riferimento a un'epoca storica determinata del tutto estranea a una teoria scientifica dell'800, un elemento dello splendore di una delle fasi più alte, celebrate e per noi familiari e proprie della storia, con un essere poco evoluto e, inoltre, estraneo alla fauna europea, etc., voleva creare uno strano senso di incomprensibilità e forse anche di disorientamento.
Lo sguardo della scimmia ricorda quello umano, il suo volto non appare aggressivo, ma piuttosto stupido, benché quasi contraddistinto da un vago anelo verso la comprensione delle cose. Un animale del genere suscita anche una certa tenerezza, per quanta diffidenza si possa avere verso di esso, ma pure un senso di disagio al pensiero di essergli più simili di quanto siamo soliti pensare e non necessariamente più "fortunati". La relazione di tale animale con il personaggio è plurima, potrà arrivare a questa conclusione chiunque si prenda la briga di leggere il testo e non vorrei qui esplicitare ulteriormente a cosa mi riferisco. Stride anche l'immagine dell'animale con la parola "fuoco" primo dei più importanti passi dell'uomo verso lo sviluppo della tecnica.
La scritta "imperiale", invece, rimanda ad altri elementi tipici e propri del personaggio protagonista dell'opera (Andrea) che è assai consapevole (disperatamente consapevole) delle proprie origini culturali e in un certo senso amante del suo passato storico che ha fin troppo presente. Egli è, in un certo senso, dolorosamente "crocefisso" tra epoche ormai troppo distanti e i cui elementi non riesce a comporre in modo uniario e sensato, ma il cui sacrificio, abbandono, la progressiva perdita nell'oblio, lo atteriscono e dilaniano di rammarico.
Uno degli espedienti utilizzati per creare un personaggio che in modo sintetico rappresentasse l'epoca attuale e la dubbiosità perenne (se mi si passa ora l'esemplificazione troppo audace del concetto che avrei voluto esprimere nel testo) nella quale si è immersi volenti o nolenti, è stato proprio quello di creare un soggetto che cercasse (in modo che forse arriva al risibile) di ricondurre i suoi accadimenti a storie e teorie perse in un percorso umanistico di oltre duemila anni e con esse tentasse, inutilmente, di risolvere i problemi concreti che va affrontando ed interpretarli.

mercoledì 14 settembre 2011

CHIARIMENTI: N° 2, riguardo alla scelta della Casa Editrice


Sono un autore ascolano. Ascoli è un luogo strano, siamo soliti criticare, anche a ragione, la nostra città, ma il fatto che tutti lo facciamo lascia pensare, altre ci si fa trasportare da campanilismi un po' superficiali. Sono ridicole tutte le prese di posizione aprioristiche rispetto all'amore-odio per un posto, specie quello natale. Uno nasce dove nasce e per forza di cose si affeziona e appartiene alla sua città più che al resto del mondo, così pure è vero che questo legame fa sì che ci si creda "in diritto" di accampare pretese, sentirci scontenti o frustrati da aspettative irrealizzate. È un errore assumere tale atteggiamento a meno che non si lavori solo per amore del miglioramento, sempre possibile. Ascoli è come tutti i posti della terra probabilmente, e la sua gente anche lo è, nonostante le proprie caratteristiche tipiche, un suo spirito peculiare, magari non sempre nobile. Ho voluto pubblicare (lo ho scelto con convinzione) con un editore ascolano perché sono dell'opinione che qui dove vivo ci siano tante realtà e tante persone capaci e intraprendenti, oltre che preparate, che meriterebbero maggior appoggio. Dalla mia limitata esperienza posso dire di aver conosciuto musicisti locali, persone di cultura, esperti di antichità, storia, letterati, di gran caratura, del tutto sconosciuti a una cittadinanza spesso distratta e poco critica. Solo in musica, l'arte che amo maggiormente, basti pensare che sono uscite perle underground come Jotenheim o Battle Ram, così come è della zona il maggior esperto mondiale di Grind Core e Noise Core e gli esempi potrebbero moltplicarsi. Su questo forse si dovrebbe lavorare: gli ascolani dovrebbero imparare ad apprezzare e conoscere le persone inquiete e magari meno conformiste che nascono sul loro suolo, usufruire di ciò che di buono propongono e apportano.
Avevo contatti ed avrei avuto la possibilità di rivolgermi a piccole case editrici di altre città italiane, avevo, per ragioni valide, escluso di presentarmi alle grandi. Alla fine ho ottenuto quello che preferivo, un contatto con un'impresa del posto e devo dire che lavorare con Domenico e con i suoi collaboratori (Simona in primis) è stato più che soddisfaciente.
La scelta di piccole realtà editoriali assume oggi tratti di eticità. Il mercato del libro (senza voler scomodare la "letteratura") è in mano a pochi plutocrati (come il resto d'Italia) che tiranneggiando condizionano il panorama e impongono i prodotti che vogliono. Si tratta solo di sfornare lorde quantità di prodotti commerciali per realizzare un profitto.
Il testo che proponiamo, la casa editrice Capponi ed io, è un prodotto artigianale invece, legato ad una tradizione quasi "manuale" della creatività, che di sicuro sarà apprezzato da un lettore attento.
Oggi non è comunque possibile evitare di entrare nei gangli serrati e freddi del mercato. La situazione è così univocamente drammatica da non permettere a nessuno di avere spazi autonomi. Dopo una ponderata disamina delle realtà editoriali, evitando qui di tediare con un resoconto esteso, posso dire che intraprendere una strada per evitare di beneficiare certi soggetti (o, più verosimilmente, limitarne il beneficio) è oltre che la corretta "scelta etica", anche una "scelta epica". Come in tanti altri ambiti è inevitabile che del lavoro di uni si beneficino altri, persone che non hanno apportato nulla, che campano in virtù del loro arrogante gigantismo.
In un'ottica umana questo modo di procedere si chiama parassitismo. Siamo spesso in mano a parassiti, lottare contro di loro, cercare di affermare puntigliosamente, e realizzare in concreto, il principio per il quale a ciascuno spetta un beneficio a seconda solo dello sforzo realizzato è una missione che ogni uomo che voglia definirsi tale deve oggi compiere.

martedì 13 settembre 2011

CHIARIMENTI: N° 1, Riguardo al titolo del romanzo e allo pseudonimo


Inizio con questo post una serie di scritti volti ad affrontare e chiarire aspetti del romanzo che spero leggerete.

I primi dati che chiunque si troverebbe a prendere in considerazione, una volta fissata l'attenzione sul volume che ho realizzato, sono necessariamente il titolo dell'opera ed il nome del suo estensore. Quest'ultimo è uno pseudonimo ed è stato opportuno utilizzarlo per varie ragioni. La principale, ma ve ne sono altre, è funzionale all'economia della storia posto che volevo che il nome del suo personaggio coincidesse con quello che appariva in copertina, ma volevo anche distanziarmi da una figura che seppur modellata su dati biografici è di pura invenzione e molto diversa dal suo creatore. Svelando ora uno dei vari ed innocenti riferimenti alla Divina Commedia seminati per l'opera (formulati a volte per analogia altre per antitesi), il nome del personaggio appare in essa in una sola occasione e viene pronunciato dalla persona amata dal protagnista. È noto come nella Divina Commedia sia Beatrice, in cima al monte Purgatorio, nel Paradiso Terrestre a nominare per l'unica volta in tutta l'opera il nome di Dante, nel Canto xxx (dissipando ogni dubbio sull'identità del protagonista pellegrino e chiarendo al contempo la sua corrispondenza con l'autore del poema).
Il nome scelto per rappresentare l'autore è poi una mera trasposizione del mio nome anagrafico nella sua radice greca (più usuale) invece che nella latina. Esso è stato scelto anche in ragione della sua alta disponibilità in Italia per voler significare che la situazione nella quale il personaggio versa è solo un prototipo di tante altre simili e proprie di una generazione specifica.

Anche il titolo dell'opera ha a che vedere con il Purgatorio dantesco. L'attraversamento del fuoco al quale in esso ci si riferisce, infatti, è quello del muro che separa gli ultimi forzati della speranza dal Paradiso Terrestre, luogo a partire dal quale non si soffre più. L'invenzione dantesca del muro di fuoco si deve come è noto sopratutto a un passaggio biblico, tra i pochi che supportano l'invenzione di un luogo ultraterreno intermedio tra dannazione e beatitudine (cfr. 1 Corinzi 3: 12-15) ove ci si riferisce a chi si salva: "come atraversando il fuoco", o "si può essere salvi ma come chi attraversi il fuoco". La forma specifica scelta per dare il titolo all'opera è stata messa a punto affinché possedesse una lieve anfibologia, essa infatti può ben essere letta in prima persona come: "la maniera nella quale io attraverso il fuoco", che come "similmente a come (nel modo in cui) si passa attraverso il fuoco".


venerdì 9 settembre 2011

L'UOMO NUOVO (racconto breve)

Era improvvisamente sorto un nuovo spirito dell'epoca, ormai non si riusciva più a vedere gli esseri umani come si era fatto per i secoli anteriori e si era stati abituati: un corpo, un cervello, un'anima, gusti, educazione etc. Era come se a un tratto ci si fosse svegliati, e, aperti gli occhi, si fosse colta finalmente l'essenza, la visione autentica e sintetica di quello che in effetti è una bestia uomo. Fissandolo con attenzione non ci si poteva figurare altro che un tubo verticale, un canale che iniziava dalla bocca e finiva nell'ano. Attorno ad esso poi si ammatassava tutto il resto: gli organi, gli umori, i fluidi, le ossa, le curve, la ciccia, i comportamenti, ma tutto ciò non rappresentava che orpelli, complementi di scarsa rilevanza per uno sguardo che badasse solo alla sostanza. Un uomo non era altro che il canale che tramuta cibo in merda. Al contempo ormai, quando ciascuno fissava gli altri esseri umani e immaginava la loro storia, l'unica figura che fioriva, univoca e ripetitiva, era quella di questo tubo di tessuti, perso in uno spazio vuoto e incolore, che, visto nel suo divenire, cresceva, si allungava, resisteva un certo tempo, poi invecchiava fino a dissolversi; persisteva il più possibile ingurgitando determinate quantità di certe merci ed espellendone determinate altre di escremento. Dissoltosi il canale, nella visione, non restavano che quintali e quintali di materiale di risulta derivato dalla più o meno vasta attività copropoietica di una biografia completa. Rimaneva materiale di uno o altro tipo a seconda della qualità e quantità delle cibarie ingurgitate, del corretto funzionamento del tubo, e di tutte le altre variabili concrete implicate. Tutto il resto pareva aver perso di importanza o addirittura non esistere per nulla e la progressione temporale di ogni vicenda personale non contemplava che questi due momenti: quello dell'ingerire e quello dell'evacuare. Una “macchina” priva di fascino, sgradevole, si sarebbe detto nei tempi passati a vederla in questo modo, ma ormai tale visione non faceva il ben che minimo effetto repellente a nessuno. Era stupefacente forse la ripetitiva costanza e il nitore figurativo con cui questa nuova interpretazione della realtà antropologica si affacciava nella mente di ciascuno, così univoca, concorde, esatta alla fine, eppure che, nell'umana vicenduola, si era tardato tanto a maturare.

mercoledì 7 settembre 2011

Rilievi sulla questione dell'”antivedere” (di Farinata) e la conoscenza degli epicurei una volta giunta la fine dei tempi.


Il problema della conoscenza e quello della “memoria” di un dannato dantesco (o ancor più di un’anima qualunque dei tre Regni dei morti) è immensamente complicato, così come infiniti altri. L’estrema complessità è parte dell'interminabile fascino dell’opera stessa, poiché tra i piaceri che essa regala c’è quello di immaginare conseguenze implicite di alcune sue tematiche alla luce degli elementi che Dante semina nel corso dell'opera. Uno dei più complessi e con i riverberi più intricati e suggestivi, è proprio questo.

I dannati danteschi vivono in un'“aura sanza tempo tinta” (Inf. III, 29) priva cioè di alternarsi di giorno e notte, cambiamenti e storicità. Essi si trovano del tutto relegati al di fuori del mondo storico di cui non fanno più parte. Tuttavia conservano un “sinallagma” con esso, posto che consapevolmente espiano la colpa mentre la vicenda umana procede nel suo divenire e di ciò sono coscienti, sapendo in modo molto approssimativo a che punto essa si trova e conoscendone elementi e momenti. All'inferno, dunque, ci si finisce mentre il mondo "accade", ed il luogo di pena eterno “sta”, infatti, "nel mondo", notoriamente sotto la crosta terrestre, che ospita il punto, il suo centro, più remoto da Dio.

Farinata nel suo dialogo con Dante sostiene di vedere il futuro (mondano) con la vista difettosa di un presbite, Inf. X, 100-105:
“’Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose’, disse, ‘che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano’.”.

Lo vede, cioè, più chiaramente quanto più lontano esso è, e meno nitidamente quanto più vicino, fino ad ignorarlo del tutto in prossimità e durante il suo verificarsi. A questo punto solo notizie esterne possono essere efficaci per conoscere il presente.
La curiosa dinamica della loro conoscenza futura è spiegata in virtù del contrappasso, e forse il fatto di conoscere il futuro in modo difettoso non è qualcosa di specifico degli epicurei. I dannati hanno, infatti, vissuto tutti abbarbicati unicamente al loro presente, pur essendo vero che gli epicurei –tra i dannati, ma anche tra gli eretici stessi- sono specialmente colpevoli di ciò. È probabile infatti che tutti i forzati dell'inferno: in primis conoscano il futuro, prima conseguenza del contrappasso comune tra loro (d’aver, appunto, privilegiato il solo presente storico) e probabilmente lo è pure che tutti ignorino il presente (v. per es. il Rusticucci quando si riferisce al giullare Guglielmo Borsiere, foriero di notizie del presente di Firenze ai fiorentini precedentemente deceduti, che lo ignorano, Inf. XVI, 70-72:
...Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole”.).

Perplessità immani sull’assetto globale ed il funzionamento delle leggi sulla conoscenza dei dannati e la loro memoria sono comunque forti già solo notando come, ad esempio, Virgilio presentandosi ad Ulisse e Diomede (Inf. XXVI, 79-84) formuli una specie di captatio benevolentiae in un riferimento alla sua Eneide (ibidem, 81: …Li alti versi scrissi), opera che i due dannati avrebbero dovuto conoscere dopo la loro morte (come futuro), ma solo prima della sua realizzazione (avvenuta tra il 28 ed il 19 A.C.), e non più all’epoca del dialogo (il 1300 D.C.), così come avrebbero, a quel punto, dovuto ignorare Virgilio come persona, ed al massimo conoscerlo solo per il riverbero della sua durevolissima fama futura, ancora a lungo persistente nell’avvenire del 1300 (quando si realizza il viaggio). Detto ciò però avrebbero dovuto conoscere ancor meglio Dante, la Divina Commedia e la sua fama (ancora future al momento del dialogo), che però, povero Dante, egli non avrebbe mai potuto essere sicuro di ottenere in modo così duraturo (quand’anche è noto che il Poeta fosse consapevole che ne avrebbe avuta cfr. Par. XVII, 118-120:
e s'io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico”).

Ad ogni modo, uscendo da inutili e sterili gineprai dovuti unicamente alla insuperabile condizione umana del nostro amato Poeta, e gli inevitabili ostacoli ontologici insiti nella finzione del racconto, dal dialogo Dante-Farinata esce più o meno chiaro un dato rispetto alla conoscenza del passato di un dannato, cioè che Farinata (ma nessun altro dannato o defunto) non soffre di amnesia, vale a dire egli parla disinvoltamente della sua vita e del suo tempo ricordandoli con buona memoria (anzi a dirla tutta, è noto come egli, al limite della contraddizione, paia conoscere anche quel presente storico che dovrebbe per regola generale ignorare, cfr. Inf. X, 83-84). In merito all'insieme delle conoscenze che riguardano la sua vita ed il contesto storico a lui proprio e quello anteriore ad esso ci sarebbe da chiedersi se la condizione di defunto (e di dannato) gli conferisca alcune conoscenze aggiuntive rispetto a ciò che egli sapeva in vita o se i ricordi siano esattamente gli stessi (vale a dire se da dannato sa esattamente quello che sapeva in vita o se le sue conoscenze del passato si ampliano per il fatto di essere defunto). Ci sarebbe inoltre da questionarsi su se il periodo di condanna infernale che intercorre tra la morte di ogni individuo e l’arrivo della fine dei tempi, intacchi i ricordi e le nozioni contenute in ogni anima o invece li lasci invariati, senza patire, cioè, il degrado, tipico negli uomini, causato nella memoria dal trascorrere del tempo. Infine ci sarebbe da chiedersi se sia invece possibile, ed in che misura, e con che dinamiche, un qualche accrescimento delle nozioni sul passato sopratutto in virtù di dialoghi tra dannati (il futuro prossimo è man mano comune a tutti e si suppone lo ignorino tutti allo stesso modo).

Ammesso che i dannati ricordino il passato, loro proprio, e vedano il futuro in modo imperfetto, perdendo capacità cognitive di quello più prossimo sino ad ignorarlo del tutto al presente, viene da pensare che essi "ricordino" il futuro, proprio all'incontrario di come in terra si ricorda il passato, vale a dire perdendo gradatamente la memoria di esso sino a non averne più traccia e non poter rievocare nulla di qualcosa di anteriormente saputo. Difatti si sta dicendo che i dannati non sanno più un qualcosa che sino ad un certo punto hanno, invece, già saputo, e che quindi hanno "dimenticato". L'idea non è del tutto originale, basti pensare come, nella tradizione classica, anche alle Muse si conferisce la caratteristica di ricordare oltre al passato anche il futuro. In virtù di tale dinamica è coerente pensare che Cavalcanti, che cerca di informarsi sulla condizione del figlio che ha lasciato in terra (Inf. X, 58-60 e ibidem, 67-69), ignorandola completamente quando formula le domande (e sconcertando con esse Dante, ibidem, 70 che perciò tarda a rispondere), abbia in passato saputo con esattezza la data della morte di lui (Guido), ma che ora non riesca più a ricordarla. Il padre al momento del dialogo, deve, quindi, ormai, anche aver perso del tutto di vista il figlio in quel futuro che riesce già ad intravedere fuori dalle nebbie del presente limitrofo, posto che allontanandosi con la mente verso quello più remoto, e a lui più chiaro, non lo vedrà più calcare il mondo, avendo la certezza che da lì in poi sarà, per forza di cose, già morto. Difatti Guido, quando Dante compie il viaggio (si trova lì da Farinata e Cavalcanti il 26 marzo), è ancora vivo, ma morrà a breve, il 29 agosto dello stesso 1300. Fosse morto più in là Cavalcanti non avrebbe dovuto-potuto, verosimilmente, chiedere nulla. Curioso anche notare, a margine del discorso, come nel futuro più remoto il Cavalcanti padre dovrà per forza di cose scorgere che "per altezza di ingegno" Dante supera notevolmente Guido, che era fino all'epoca stato il maggior poeta italiano assieme allo stesso Alighieri.

Detto ciò, se si vuol immaginare cosa i dannati epicurei potranno sapere quando i tempi saranno esauriti (alla fine del mondo e della storia umana), rimangono poche opzioni: riguardo al futuro è chiaro che essi non ne sapranno più nulla, difatti esso andrà svanendo nelle loro "menti", man mano che esso si vada realizzando nel mondo, fino a non rimanerne traccia quando non ci sarà più futuro di sorta. Lo andranno, pertanto, scordando poco a poco ma inesorabilmente (lo afferma lo stesso Farinata, ibidem, 106-108:
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta.).

Tutto il futuro prima conosciuto, e successivamente dimenticato, non dovrebbe poter essere recuperato in alcun modo, o si sarebbe costretti a sostenere che per un dannato il presente è sconosciuto per una sorta di “amnesia temporanea”, il che, tra l’altro parrebbe essere recisamente escluso dal Farinata stesso (loc. ult. cit.). Alla fine dei tempi il presente storico non esisterà più, e quindi i dannati saranno coscienti solo di quello infernale (immutabile). Ma rispetto al passato il discorso non è così evidente, e così neppure lo è immaginare quello che le anime dannate epicuree "conterranno" ancora, in loro stesse di loro stesse e del mondo storico vissuto, per il resto della loro esistenza fuori dal tempo.

Se le memorie della propria vita vissuta da vivi rimarranno intatte, e se essi conoscono del passato solo esse, allora gli epicurei, coscienti solo di esse, rimarranno per sempre solo quello che loro sono stati nella propria vita terrena e saranno consapevoli sempre e solo di ciò (contrappasso calzante, vista la colpa). Se invece la memoria soffrisse (e anche da morti come in vita) delle variazioni, del normale progressivo logorio e perdita di nozioni che tutti conosciamo da vivi, le anime avranno progressivamente sempre meno coscienza e ricordi di quanto vissuto in terra, sino ad arrivare (verosimilmente) ad uno stato di amnesia completa ed assoluta alla fine dei tempi (un curioso flash di questo dimenticare ogni cosa, persino il proprio nome, nel tedio imperituro dell'inferno è nel film di Bergman “L'occhio del Diavolo”, dove un bizzarro personaggio interrogato suo proprio nome da Satana in persona risponde “l'ho dimenticato”). Le anime epicurre saranno, quindi, destinate ad essere del tutto vuote di nozioni e conoscenza alla fine. Forse indizi per smentire questa così dura ipotesi potrebbero ricavarsi da quanto detto da Virgilio a Dante dopo l’incontro con Ciacco al Canto VI, 106-108, rispetto alla “maggior prossimità alla perfezione” dei dannati, dopo aver recuperato il corpo alla fine dei tempi, quand'anche il passo citato non è affatto dirimente, tutt'altro.

Infine, i dannati potrebbero conoscere il passato in modo pieno e completo, interamente (non solo quello biografico, quindi), con il limite, tuttavia, di saperlo solo fino all'ultima nozione appresa in vita, posto che tutto il resto sarebbe stato, una volta morti, nel loro "futuro" e avrebbero dovuto, perciò, averlo già saputo come futuro e successivamente dimenticato in modo progressivo. Ciò però implicherebbe che l'ultimo arrivato degli Epicurei saprebbe molto di più del primo. A questo punto potrebbe immaginarsi che i nuovi arrivati non dovrebbero poter mai comunicare agli altri le proprie nozioni senza rompere una delle conseguenze della pena divina (che essi debbano ignorare il futuro, rectius il loro futuro, al trattarsi di un futuro progressivamente divenuto passato su questa terra). E sarebbe plausibile pensare che dopo l'uscita dalla storia umana non sarebbe più possibile comunicazione tra convitti epicurei (per lo meno di diverse epoche), oppure bisognerà pensare (plausibile anche) che i racconti “de relato” non costituiscano una vera e propria fonte di “conoscenza”. D'altra parte che i dannati parlino e si raccontino fatti lo si sa percerto, v., tra altri, il passo che si riferisce a Guglielmo Borsiere, già citato, così come è frequente che chiedano notizie del presente (per tutti Guido da Montefeltro). È a dirla tutta famosamente curioso che la richiesta di informazioni sul presente da parte di un defunto avvenga una volta anche in Purgatorio dove, neppure, la conoscenza delle anime già salve è scevra da complessità.

In vita gli esseri umani -vivi- ignorano del tutto lo stato della vita ultraterrena (a dir tanto immaginandola), e conoscono solo la realtà storica, mondana. In essa, vivono il presente e lo discernono in base alle loro percezioni sensoriali, ricordano frammentariamente il proprio passato e le conoscenze in esso acquisite, che vanno perdendo “di vista” con il trascorrere del tempo. Infine, immaginano un futuro immerso, comunque, in un grado di più o meno elevata incertezza. Un dannato invece, semplificando all’estremo, (forse) ignora il presente mondano (è consapevole solo del suo proprio e piuttosto immutabile “presente” senza tempo di dannato nella sua esistenza oltremondana, quindi), ricorda un passato biografico suo, e conosce il futuro, “scordandolo” man mano che esso vada confluendo nel presente, quando, poi, lo ignorerà del tutto. La conoscenza mondana di un dannato, dunque si va riducendo con il trascorrere del tempo, posto che il futuro, conosciuto con miglior discernimento quando remoto, si va sbriciolando in funzione della sua effettiva realizzazione sulla Terra.

Mentre nella vita vissuta di ogni essere umano un ipotetico futuro, una volta concretizzatosi in un presente più o meno affine alle aspettative ed alle previsioni di ciascuno, viene poi incamerato in memorie, ed accresce i ricordi, alimenta la conoscenza quindi, in un dannato tutta la conoscenza del futuro svanisce col divenire e non ha possibilità di essere incamerata in altro modo e recuperata. Non potrà confluire in memorie di alcun genere. È per questo che un dannato defunto in una determinata epoca sarà, quindi, con ogni probabilità, da immaginarsi, alla fine dei tempi, come un dannato proprio di una specifica e determinata epoca e solo quello. L’unica maniera di accrescere le proprie conoscenze una volta entrati nella condizione di dannati è quella di avere notizie da altri, racconti, captare nozioni. Ma possiamo immaginare come piuttosto sporadici e laconici questi contatti forieri di conoscenza e tra essi una occasione è proprio la discesa del Poeta all’Inferno. Dante infatti in varie occasioni, come detto, porta notizie del presente e ne parla (v. Guido da Montefeltro, per es. Inf. XXVII), il suo viaggio è però un caso più unico che raro. Altro modo di conoscere l’ignoto sarà, come detto, il dialogo tra convitti di diverse epoche, ma a questo punto, pur ignorando le dinamiche specifiche del caso, viene da ricordare come i dannati eretici siano confinati in sepolcri a gruppi, che alla fine dei tempi verranno sigillati definitivamente, questo potrebbe lasciar pensare che tra i criteri per formare i gruppi vi sia anche quello della appartenenza ad un determinato periodo storico. Per ultimo, forse, altra fonte di apprendimento potrebbe venire anche dalla sporadica comunicazione con i vivi attraverso pratiche negromantiche o spiritiche, e di evocazione, idea non è del tutto priva di senso e bizzarra nell’assetto della Divina Commedia se pensiamo alle parole di Virgilio nel Canto IX e i riferimenti alle Pratiche della maga Eritto (v. Inf. IX, 19-27).

In merito al problema di come si atteggerebbe il “dimenticare progressivo” e totale di qualcosa di anteriormente conosciuto come certo –il futuro per i dannati epicurei- e quindi dello stato e dei meccanismi della loro conoscenza ed intelligenza, si potrebbero formulare alcune prime riflessioni.

Facendo un parallelismo con la nostra attuale condizione umana di esseri viventi, e seguendo la nostra più banale, accettata, schematica e condivisa maniera di “immaginarci” il percepire la realtà sensibile, quella che come esseri umani siamo intuitivamente –o culturalmente- abituati a pensare come indiscutibilmente valida, possiamo farci un’idea delle differenze e delle analogie con la condizione di questi dannati e del loro “stato mentale”.

Siamo soliti pensare di ricordare parti frammentarie di un passato già sedimentato ed immutabile, certo, perchè accaduto e storicizzatosi, di immaginare uno sfuggente e vago futuro, incerto, che va vorticosamente convergendo in un presente (che viene poi, appunto, immagazzinato in memorie) che consideriamo come unica “realtà” effettiva. La realizzazione del futuro, e la sua conversione in presente storico -e dunque in passato-, avverrebbe in virtù del divenire –del cambiamento- in base (tagliando le cose con una mannaia affilata fino all'errore) alle leggi di causalità e (si presuppone visto che ci si considera intuitivamente liberi) delle concrete scelte -anche con valore morale- realizzate dall’essere umano. L'essere umano è immerso in un contesto dai tratti più o meno indipendenti dalla sua flebile volontà, sfuggenti e di cui egli ha una conoscenza estremamente parziale, ed un dominio ancor minore

In merito al fatto che sia il futuro a convergere nel presente e non, viceversa, il presente ad “avanzare” verso il futuro, come, tra gli altri, ha chiarito in modo esemplare anche Borges, v’è da precisare che la prima impressione intuitiva –quella, appunto, secondo cui sarebbe il passato a dirigersi verso il futuro- è piuttosto debole e povera. Ad una appena più attenta riflessione si nota con certa chiarezza come la nostra ristrettissima visione dello stato delle cose ci fa percepire come più descrittiva e corretta la vettorialità del divenire proprio in senso contrario. È infatti il futuro a convogliarsi verso il presente, “morendo”, fossilizzandosi, in un passato che per forza di cose concepiamo come ormai immutabile e pietrificato. È il futuro, vivo, ricco di opzioni, plurimo, incerto, e non ancora realizzato, a ridursi ad unica realtà presente confluendo, per quell’unico canale che è il presente storico, nell'univocità del passato, assolutizzandosi in tal modo, quando precedentemente gli appartenevano tutte le opzioni –i possibili- scartate dalle scelte concrete realizzate da chi ha questa facoltà -quella di scegliere-. In merito, una esemplificazione può venire dalla nota situazione di una partita di scacchi, nella quale ogni mossa giocata non possiede solo lo straordinario potere insito nella sua concreta forza strategica rispetto alla posizione specifica, ma anche e soprattutto l’immane e definitivo effetto di scartare irrimediabilmente tutte le altre opzioni a disposizione del giocatore fino alla sua realizzazione, e con esse anche tutte le innumerevoli disposizioni dei pezzi incompatibili con la giocata realizzata.

Intuitivamente siamo portati ad immaginarci e semplificare la realtà vissuta in modo tale da ritenere che vigano delle leggi di causalità necessaria –naturali- che conformano la realtà fattuale. A volte ci si spinge ad immaginare che, forse, se si conoscessero tutte le cause si potrebbero anche, usando l’intelletto, prevedere tutti gli effetti (per inciso, prima e immediata critica a questa visione semplicistica dell’esistente, solo per brevemente fornire uno spunto, viene già dall'osservazione che l'intelletto umano, che dovrebbe comprendere le cose, essendo inserito nella dinamica causale oggetto del suo “studio” è esso stesso “causa tra le cause” e nel suo comprendere è a sua volta agente di cambiamenti la cui comprensione dovrebbe inseguire). La scienza moderna ha ampiamente rivisto e smentito questa intuitiva, ma molto riduttiva, costruzione e rappresentazione pressoché meccanicista della realtà, che non soddisfa anche senza arrivare a menzionare -o al di là de- la questione dell’esistenza di una autonoma e tipica “opzione di scelta morale” dell’essere umano, o l'esistenza di mondi paralleli che esauriscano “i possibili”. Nonostante tutto, quella causale -e poi anche morale- parrebbe essere l’unica costruzione davvero convincente per un essere umano e per il suo assetto cerebrale, o l’unica nella quale egli possa muoversi a proprio agio, illudendosi di riconoscersi e conoscersi. Prendiamola dunque per buona ai fini di questo limitato discorso sulla conoscenza del futuro di immaginari dannati epicurei.

Ebbene, in base a quanto intuitivamente percepito da ciascuno di noi, i limiti della conoscenza umana in merito al passato nel suo insieme comportano che, non conoscendosi tutte le cause -ed essendo noi stessi, appunto, causa tra le cause-, si disconoscono anche gli effetti nel loro dettaglio, e per tanto il futuro rimarrà sempre incerto, nebuloso ed imprevedibile. Una mente che fosse capace di conoscere tutte le cause in modo minuzioso ed esaustivo, parrebbe poter avere i presupposti per riuscire ad immaginare in ogni minimo particolare gli stati successivi di quanto conosciuto.

Un essere umano, quindi, non conosce il futuro ma solo lo immagina, giacché conosce solo una parte limitatissima del passato -e del presente- ed in base ad essi si orienta, sia nel prevedere sia nello scegliere, (e nell’ignoranza rimane, sia che scelga sia che si illuda di scegliere).

Un dannato epicureo dantesco, invece, non vivendo più un autentico “presente” in divenire, ha immagazzinato, nella sua specifica identità individuale, un passato (i cui contorni specifici non sono, come detto, chiarissimi, ma che forse converrà immaginare come quello proprio biografico suo) e possiede la conoscenza di quel futuro remoto che si va dissolvendosi man mano che esso va concretizzandosi nella realtà storica. Alla conoscenza del futuro però non sono posti limiti, e quindi è lecito pensare che esso sia scrutabile sino alla fine dei tempi, ed in ogni suo aspetto (Farinata sa del futuro di Dante, e così pure Ciacco, o Vanni Fucci per es.).

Una strana e curiosa situazione da notarsi su questo assetto, sarebbe che la “distanza” temporale tra la (immaginiamole immutabili) nozioni storiche del proprio passato biografico del dannato –identità individuale compresa-, e le conoscenze del futuro andrà inesorabilmente ampliandosi col passo del tempo. Il dannato, per tanto, prima di non conoscere più nulla del tutto, al sopraggiungere della fine dei tempi, conoscerà un determinato passato storico suo proprio ed avrà, al contempo, cognizione esatta di avvenimenti e circostanze future di epoche lontanissime dalla sua esistenza mondana, piena di dati, oggetti, situazioni, costumi a lui del tutto estranei, quindi. Di tali epoche egli conoscerà, quindi, modi, costumi, oggetti, senza però poter risalire a ritroso sino a individuare il cammino certo attraverso il quale si è arrivati alla condizione che vede con chiarezza, e senza poter riportarla e farla combaciare col proprio passato biografico.

Se in vita, un essere umano, in base alle sue capacità intellettive e conoscenze del momento -tutto quello che ricorda, che non ha dimenticato, quindi- riesce ad immaginare ed ipotizzare (con un più o meno alto grado di errore, e secondo le capacità e le circostanze di ciascuno) un qualche futuro, si potrebbe immaginare che, a ritroso, anche un dannato epicureo potrebbe farlo in merito a quel presente storico, che ignora, ed anche rispetto a tutto quel “futuro” (dal suo punto di vista di trapassato di un determinato momento) già concretizzatosi nella vicenda umana: quel futuro, ormai divenuto passato, che era nel suo “futuro di defunto”, ma che poi si è andato realizzando e che, quindi, egli ha saputo, ma poi ha anche “dimenticato”. Rispetto a tale periodo temporale, il presente storico-mondano e quell'”ex futuro” -ormai sedimentatosi nella storia umana, ma successivo alla sua morte ed ormai inconoscibile per l’epicureo- saremmo propensi a credere che il dannato potrebbe “immaginarlo” ricostruendolo a ritroso a partire da tutto quel futuro –ancora non realizzatosi sulla terra- che egli può ancora discernere con buona vista. Un dannato epicureo, quindi, sarà certo di avvenimenti e situazioni ancora incerte, immerse nella libertà morale degli uomini futuri, mentre ignorerà la realtà storica già accaduta, vera, concreta, posteriore alla sua morte.

Chiaro che se così funzionasse una mente dannata, immersa nella sua specifica condizione, dovremmo arrivare a pensare che egli debba conoscere il futuro storico in modo lacunoso, imperfetto, posto che se avesse visione chiara e completa di tutti gli effetti futuri, e potesse contenere tanta conoscenza, potrebbe anche ipotizzarsi che possegga implicitamente le capacità di risalire da effetto ultimo a causa, con ciò ricostruendo il passato interamente, fino a farlo collimare e combaciare col suo proprio passato storico. Ciò a maggior ragione se consideriamo che la cesura esistente tra mondo terreno ed ultraterreno non lo renderebbe per nulla “causa tra le cause” di questo.

È quindi probabile che un dannato epicureo abbia una cognizione del futuro generale, magari anche corposa, ma non assoluta, visto che la sua caratteristica (già umana) di ragionamento non parrebbe, nella versione dantesca, renderlo capace di ricostruirne gli antecedenti con totale certezza. È anche possibile pertanto che così come in vita si immagina il futuro (conoscendo il passato ed il presente in modo imperfetto) in dannazione si “immagini” quel “futuro ormai passato” (storicamente avvenuto) e dimenticato, avendone una visione del tutto priva di effettivo valore conoscitivo, ma fantasiosa, incerta. Ciò, comunque, è piuttosto curioso da immaginare in ottica storica umana, visto che ci troveremmo dinanzi a persone con una loro specifica identità sia personale che storica, che durante tutto il tempo della realizzazione della vicenda umana staranno immaginando un presente ed un passato già determinati, mentre sapranno con certezza tutto ciò che ancora è nell'indeterminatezza della effettiva realizzazione su questo mondo. Inoltre essi conosceranno meglio tutto ciò che più si allontana dal loro –indimenticato- tempo di vita vissuta, ma non ciò che è a loro più vicino. Avranno dunque confidenza e cognizione di tecnologie, teorie, pensiero, costumi, oggetti avvenimenti, assolutamente distanti dal loro tessuto biografico, perdendo progressivamente la traccia delle origini di tutto ciò nella storia umana, ed il percorso evolutivo nel quale essi si sono sviluppati.


lunedì 5 settembre 2011

Novella: UN PRESTIGIOSO LAVORO AL CAFFE' STORICO

Qui di seguito propongo una novella che scrissi tempo fa, spero che la troviate interessante. Grazie!



Un Prestigioso Lavoro al Caffè Storico.


Ci passo tutti i giorni in piazza, poi mi infilo nel Caffè storico della mia città. Ci vado mica perché mi piace, è un posto troppo elegante, è mio padre che si ostina, non voglio contrariarlo, lo accontento. Prendiamo il caffè insieme alle undici, tutti i giorni. Ne ho bisogno, mi distende i nervi, deve essere perché sono così dipendente che se non assumo caffeina divento irritabile. Lui è già lì, in giacca e cravatta, anche d'estate, anche da quando è pensionato. È convinto che abbiamo gli stessi gusti, non gli viene in mente che non è il posto per me, che giro vestito da rockettaro. Non sa manco cos'è, non ci fa caso, dice solo che sono ridicolo con quelle maglie e i giubbotti di pelle, che dovrei vestire meglio; si aggiusta soddisfatto il bavero della giacca ogni volta che allude all'eleganza. Ogni giorno entro e lui viene verso di me dallo stesso angolo della sala, esattamente con le stesse mosse, celebrando il mio arrivo come fosse un avvenimento; poi va alla cassa, paga, ordina per tutti e due sempre lo stesso e ripete ogni volta che sono l'unico italiano che beve l'espresso così lungo. È piccolino, gli amici suoi sono tutti della stessa taglia, in famiglia invece è il meno alto, si dice che è perché è nato che ancora c'era la guerra, ha mangiato poco da poppante. Durante la mia pausa caffè mattutina non sono mai accaduti eventi davvero significativi della mia biografia; l'ho capito riflettendo sul fatto che altrimenti non ripenserei così spesso a quanto mi irritò quell’amico suo lì fuori, un mattino. Sono un tipo impaziente, atrabiliare, è vero, e succede più spesso quando si ripropongono le condizioni climatiche di quel giorno, col sole estivo che picchia, il bianco abbacinante del travertino della piazza, fastidioso, la canicola che fa scottare la pelle. Uno va a prendere un caffè per stare tranquillo, rilassarsi un momento, mica per dover sopportare gli altri. Quel giorno incontrai mio padre fuori dal locale, con amici, mi unii a loro e il capannello di persone, troppo lento per me, più giovane di trent’anni, si diresse verso l’ombra del porticato che recinge l'ingresso. Prima di arrivarci il proprietario, amichevole col gruppo, ci venne incontro per far due chiacchiere, fermandoci mentre eravamo ancora sotto il sole, giusto prima dell’ombra, lui già al riparo. Non mi è mai andato a genio, ma non me lo ero mai confessato chiaramente fino a quel giorno. Si avvicina e ci racconta una storia, per fare il simpatico, il classico siparietto da commerciante che ci tiene a farsi notare, l'imprenditorello brillante che sa stare al mondo, con tanti pensieri e decisioni da prendere, efficiente, impegnatissimo, eppure sempre disposto a regalare una frase o una storiella amena a tutti i clienti. Lo fa per farli sentire a casa, partecipi, importanti. Con la crisi il lavoro scarseggiava, ci si arrangiava, ciascuno come poteva. Stava cercando camerieri e faceva la selezione, c'era la coda; si lamentava esageratamente, come tutte le persone di provincia o forse come tutti coloro che hanno più della media; si lagnava di tutto, non gli andava bene nessuno. Tutto era problematico, nessuno era all’altezza di svolgere un lavoro tanto delicato in modo decente in quel bar così prestigioso, elegante, esclusivo, ricco di storia. I professionisti del settore sono scomparsi, arrivano solo i disperati e sì che si sarebbe dovuto pagare per lavorarci lì dentro, si sarebbe! ...Per l’onore, il riguardo di esservi ammessi, non era per tutti, porco diavolo! Un posto così bello! E invece, nulla! La gente non è riconoscente, la gente non apprezza, non vede i propri limiti, non sa cogliere le opportunità, non capisce, accipicchia! Ingrati! Ma non si vedono allo specchio? Non lo intendono come sono? Brutti, sciatti, volgari, dimessi, tristi, tutti depressi, tutti che paiono dei cadaveri ambulanti. Portamento ci vuole, soprattutto per certi mestieri, ma poi sempre nella vita! Sì, nella vita, entusiasmo ci vuole, per far girare le cose, un po’ di entusiasmo, bella presenza e sorridere, presentarsi in modo decente, ottimisti e comunicando ottimismo anche in chi ci guarda, essere ben vestiti, figurare un po’. Tutti sempre a lamentarsi, invece! Nessuno sa fare nulla e tutti si lamentano! «Ma non hanno le divise i dipendenti del bar?», chiesi, ero distratto, annoiato. Dovevo essere proprio di quelli che non capivano! Un altro, ecco sì, magari di quelli con la vecchia mentalità grigia, da vacca, del “tutto dovuto”, senza fare sforzi; che la gente mo'… si merita di vivere e di lavorare per il mero fatto di esistere!? Ma pensa che scempiaggini! Non funziona così la vita, ragazzo mio! Eh no, caro! La vita non è rose e fiori! Impegno ci vuole! E ottimismo! Un lavoro a contatto con la clientela è importante: si è il biglietto da visita di un posto prestigioso ogni volta che ci si avvicina a un tavolino. Ci vuole chi sia in grado di prenderla sul serio una responsabilità del genere. Poi ecco come andava il Paese, con gente che non sorride, che non capisce che: entusiasmo ci vuole! Che l’entusiasmo è la chiave, l'ottimismo e sopratutto avere un bell'aspetto. Pensa tu, si era presentata una donna, brutta, ma brutta, ma orrenda, con una faccia...! Con una faccia che bisognava vederla! Ce la avrebbe proprio fatta vedere volentieri! Le parole non bastano! Di sicuro ci saremmo messi a ridere di lei, io, mio padre, lì, tutti! Sbellicati! Era impossibile non ridere dinanzi a questa qua, con quella espressione da ebete, le movenze lente, impacciata, grassa. Era arrivata e aveva detto: «Vorrei lavorare!», solo questo! Ma si può!? Uno va a cercare lavoro e dice, “vorrei lavorare”, poi sta zitto, mica aggiunge altro, tipo, un po’ di entusiasmo, un po’ di verve, certa spigliatezza, ottimismo, elencando magari cosa si attende dal lavoro in questione, perché vorrebbe lavorare, perché proprio in quel posto, cosa potrebbe offrire, in cosa si eccelle. Accidenti! Invece nulla, niente di niente, “vorrei lavorare”, poi guardava co’ 'sta faccia brutta, grassa, la voce cupa. Se uno deve dare lavoro di certo non lo dà a una così! Meno che mai in un posto elegante. Chiunque sarà d’accordo! Chiunque! Piuttosto uno rimane senza camerieri, senza personale, a costo di dover prestare un servizio peggiore, e amen! A costo di andare per i tavoli il padrone! Non che si debba presentare necessariamente un gran pezzo di figa, questo no, mica si pretende una della tv, ma una decente sì, di sicuro! Una che saresti disposto per lo meno a fartela, un tipetto, un po’ briosa, sorridente, peperina, una che ti fa divertire. Poi oh, non è che uno lo fa per questo, ma non si sa mai, e il fascino del capo... sai quante donne ci badano!? Uuuuuh! Non ci avevo mai fatto caso fino ad allora, non è che mi soffermo su questo genere di dati in genere: lui era proprio brutto, era basso pure lui, aveva una voce nasale fastidiosa, parlava con una prosopopea noiosa, ma anche sciatta, era inascoltabile, non solo l’argomentare, ma pure il tono già da solo, il timbro della voce, il ritmo della loquela, particolarmente saccente, proponeva le sue chiacchiere con una singolare e proterva univocità. Non ci avevo mai badato, ma sviluppava sempre una teatralità ridicola e indisponente, come se, a ogni frase, procedesse di cretinata in cretinata convinto di star inscenando un irresistibile, geniale spettacolo di cabaret dinanzi al quale non si sarebbe sopportato volentieri di dover attendere troppo a lungo la battuta successiva. Aveva un naso affilato inadatto alla rotondità del viso, avevo sempre pensato che avesse un volto particolare, ma sino ad allora non avevo attribuito a questo dettaglio la preminenza nel determinarne quei tratti così singolarmente ostili alla vista. Una singolarissima faccia da cavolo. Era grassotto, piccoletto, pelato e non si rasava la chierica di capelli rimastagli che incorniciava un cranio un po' abbondante. Si vedeva sempre vestito di marca, elegante, ma i capi gli cadevano addosso come cenci, le giacche gli facevano difetto dietro le spalle, sempre. Neppure sua moglie mi piaceva, era troppo alta per lui forse e io la notavo avida, interessata, con uno sguardo avaro. Era famoso per essere uno intraprendente e che, se occorreva, sapeva ed era disposto pure a usare le mani per difendere il suo locale dalla gentaccia che gira. È un centro piccolo, si creano leggende e eroi in un attimo. Una mattina prese a sberle un tossico che si era infilato nel suo bar, con ciò era diventato una specie di icona della determinazione del buon cittadino che arriva a stancarsi di essere vessato da gente che disprezza la vita e le buone regole della civile convivenza. Prendere a sberle un tossico non è che sia poi difficile, ma non tutti lo fanno. Si disse che si sarebbe dovuto fare più spesso, fargliela vedere, che anche le brave persone possono essere dure. Il suo era stato a conti fatti un gesto di coraggio meramente simbolico, il tipo non si reggeva in piedi, lo portarono via in ambulanza, ma non per le percosse. All’improvviso, così, dopo il suo monologo, lo detestai. Cosa è una persona? Cos’è più importante, significativo di essa? Le sue azioni? I suoi pensieri? Le sue intenzioni? Le sue parole? Cos’ha preminenza? Di certo non il suo ruolo, o il suo aspetto. O no? Rimasi immobile, non dissi una parola, non entrai nel discorso, altri ridevano, mio padre pure. Mi vergognai un po’ per loro, non pensavo si potesse ridere per davvero per quel racconto: di gente che cerca lavoro, probabilmente ha bisogno, forse si sente inadeguata, si vergogna, è timida... Pensavo che gli altri stessero ridendo solo per quieto vivere, per assecondare, perché non costava nulla ed era in un certo senso conveniente. Mi fece schifo, fui disgustato da queste convenienze, mi irrita il riso forzato. Gli altri, neppure loro, dovevano essere davvero divertiti, non credo. Mi concentrai su di me, non risi, non mossi un muscolo, perché stavo pensando ai fatti miei, non volli dissimulare, non volli andare incontro a nessuno. Forse agii così solo perché già altri avevano comportamenti che toglievano dall’imbarazzo generale, e se non avesse riso nessuno sarei stato indotto io a farlo, avrei ceduto, per stemperare. Ma quella volta, me lo concessi, feci quello che mi andava e basta, senza mediazioni, ammicchi, semplicemente non seguii la corrente. Non manifestai nulla, neppure ostilità; all’inizio in effetti neppure ce l'avevo l'ostilità, poi sì, venne su, dentro di me e allora mi concentrai per non farla trasparire, affinché non affiorasse, perché volevo tenerla per me, pensarci un po’, riflettere e non farmi vedere infastidito da nulla. Mi sentivo inquieto come se fossi stato bruscamente svegliato da un sonno profondo. Così mi sembrava l'essermi reso conto di botto di quanto l’aspetto di questo individuo mi risultasse sgradevole. Ma ero ancora più infastidito dal pensiero che potesse avere ragione lui. La gente brutta è proprio insopportabile, è invedibile, dovrebbe rendersi conto e non uscire di casa per niente, censurare il proprio comportamento in modo autonomo o essere emarginata. Lui, per fare contento me, non sarebbe dovuto uscire di casa. Non me ne ero mai reso conto, ma era così: a voler fare qualcosa di davvero gradito lui sarebbe dovuto semplicemente sparire e lasciarmi prendere il mio caffè in santa pace. Accidenti, aveva ragione lui, ma non me l'ero mai detto così chiaramente, chissà perché. Avevo sempre ritenuto che fosse ingiusto, pensavo che fosse superficiale focalizzare questi dettagli per avere un'opinione su una persona: il naso, la voce, l’altezza, il vestire. Invece no! Era proprio vero, ci si doveva sforzare per stargli davanti e non lasciarsi trasportare dall’ostilità generata dal suo aspetto. Ero così abituato a farlo, a sopportare gli altri, che pensavo fosse inevitabile e quasi non costasse sforzo, invece sì, si fa sforzo, ma lo si considera come dovuto, dato per scontato, un qualcosa da farsi senza discutere. Se uno invece si questiona, si chiede e vuole essere sincero, smettendola una buona volta di fare il buonetto della situazione a tutti i costi e mettendosi su un piedistallo, quello che davvero sente dinanzi a una persona brutta, la risposta è: ostilità! L’elaborazione e considerazione di certi dati primari e primitivi è preminente allo sforzo di voler fare il profondo, il civile, il non superficiale. Mi aveva dato una bella lezione il tipo, aveva proprio ragione lui, ma non lo apprezzai, non sentivo riconoscenza. Mi chiesi cosa sentissi e perché non provassi la dovuta gratitudine, pur dopo aver ammesso che era stato utile, didattico. Non capii, ma sentivo solo che lo detestavo anche peggio di prima ora, in primo luogo per il suo aspetto, poi anche per come aveva espresso il suo punto di vista. Sì, poteva pure avere ragione, ma questo non lo liberava a sua volta dall’essere travolto dall'inappellabile ostilità primordiale del giudizio estetico, alla quale lui si richiamava senza avere chiari i principi e i contorni astratti, e questo era quello che contava. Indugiai sull'argomento ancora qualche secondo mentre mi avvicinavo al bancone, meditabondo. A dire il vero dovetti riconoscere a me stesso che la mia ostilità era germogliata originariamente proprio a causa delle sue argomentazioni e solo successivamente si era estesa al suo aspetto esteriore, ma ora non ci si poteva fare più nulla. Iniziai a guardarlo, pensando che fosse curioso che non lo avessi mai notato prima, ma sì, mi pareva proprio un botolo ringhioso. Accidenti non aveva nulla che mi piacesse. Pensai, che appena rimuoviamo per un secondo quegli automatismi a cui siamo abituati, che vanno avanti da soli, che diamo per scontati, la rappresentazione delle cose cambia radicalmente. Decisi, ma lo decisi con un vero sforzo della volontà, di limitarmi a pensare, di non agire affatto: né dire, né fare. Dedicarmi solo alla speculazione, ma gli avrei mollato un ceffone sul grugno, con una soddisfazione! Lo avrei intronato. Mica sono un tossico! Mi sarebbe piaciuto vedere la reazione allora. Di sicuro si sarebbe sorpreso, anche spaventato, forse non avrebbe reagito, ma avrei preferito che lo facesse, che si finisse per ingaggiare una zuffa da Saloon. Ero disposto anche al peggio. Se si fosse potuto fare qualunque cosa, senza attenere a nulla, limiti, responsabilità, seguendo solo il proprio istinto, senza badare a conseguenze, giudizi: l'avrei preso per i vestiti e fatto cadere a terra, poi spinto sul travertino della piazza costellato delle macchie nere delle gomme da masticare. Gli avrei insegnato a non uscire di casa, accidenti a lui e a non turbare più il mio piacevole momento di degustazione col suo aspetto da lattina d’olio di semi, quel suo argomentare sciatto, d’accordo, corretto, saggio, condivisibile, sincero, ma sciatto, irritante, borioso. Poteva anche avere ragione, ma era un supponente, con una estetica che io non avevo ragione di dover tollerare. Era un esemplare esponente di quella senilità odierna, che invece di riposare nella naturale e bonaria tenerezza che il passo del tempo conferisce all'essere umano, si arrovella per continuare una competizione dai tratti atletici che inevitabilmente scade nel sordido. Sembrano quei salmoni calvi che risalgono il fiume 'sti anziani di oggi, tutti arrapati, rossi, gonfi. E io? Quando uno dice: uno è buono, un altro cattivo... Si fa presto! Io sì che ero violento, cattivo, accidenti! Lui alla poveretta, che aveva selezionato, non voleva dare un lavoro, era anche nelle sue facoltà mettere chi gli pareva nel suo Caffè, la avrebbe sbeffeggiata davanti a sconosciuti, umiliata e questo era già irritante, d’accordo, ma io a lui lo avrei aggredito fisicamente e non solo per quanto mi contrariava il suo argomentare, ma anche in base alle sue stesse ragioni. Applicando il suo criterio a lui stesso. Ero turbato. Non mi piaceva essere così. Non c’era da preoccuparsi forse, bastava non farlo, visto che appena venutami in mente quell’idea già non mi garbava affatto e l'avevo accantonata, mentre con piglio pensoso mescolavo inutilmente un lunghissimo espresso amaro, ma non era solo questo il punto, perché il fatto che mi fosse venuta in mente mi bastava a scuotermi, anche se nessuno lo avrebbe mai saputo, neppure lui. Ero sorpreso e inquieto, per me stesso. Magari questo tipo non era affatto un violento, io invece sì. Nessuno lì sarebbe stato in grado di capire cosa stessi pensando, anzi, forse li ingannavo tutti, magari il mio gelido accoglimento e la scarsa partecipazione al racconto erano pure univocamente interpretati come segnali di un disagio mio dovuto a chissà quale sensibilità o solidarietà con la poveraccia che aveva dileggiato, cosa che, sì, c'era pure, ma era marginale a questo punto. La solidarietà non era che una parte di quello che sentivo, li avevo fregati tutti, senza volerlo, perché nessuno avrebbe immaginato che il mio encefalo era popolato da ceffoni da distribuirsi su quel barile di sego. O chissà, forse pure tutti gli altri pensano le stesse cose mie di tanto in tanto, magari pure di me, per il mio aspetto. Da lì in avanti avrei dovuto avere paura anche io, di non piacere a tal punto da esser confinato in casa a vita, per la mia apparenza, per come parlo. Mi guardai intorno, tutti mi parevano minacciosi, chissà che pensavano questi finti innocui, questi falsi sorridenti. Si dovrebbe avere paura di tutti forse, se pure io, che mi consideravo un mite, ero scivolato nell'aggressività. Fino a quel giorno, mi ero sempre premurato di non essere un superficiale, di non considerare le persone solo in virtù dell’impatto spesso esteticamente così poco gradevole che avevano su di me, mi dicevo sempre che avrei dovuto trascendere, considerare anche altro, chissà quali e quante specifiche ragioni alla base di altrettanti atteggiamenti odiosi… Ora nel mio nuovo mondo, così semplificato in bello-brutto o gradevole-sgradevole, nello scenario apertomi da questo mentore casuale e detestabile, mi ci sentivo a disagio. Questione di abituarsi, forse. Iniziai a sorseggiare il caffè, mi attraversò un brivido di tranquillizzante familiarità. E se il proprietario del posto fosse stato bello? Se invece di essere una scimmia pelata, lui fosse stato di gradevole aspetto, magari anche affascinante nel parlare, con una esposizione impeccabile esteticamente ineccepibile, di pregevole finitura frastica e di mio completo gusto, non sarebbero bastate le empietà sputate, tra risatelle e complicità altrui, su una persona in condizioni di inferiorità, a svegliare la mia aggressività? A essere sincero mi risposi di sì! Non si sa a priori quanto fascino e forza di suggestione possa arrivare ad avere la bellezza, ma sentivo di dirmi che il mio atteggiamento di ostilità non sarebbe cambiato comunque. Questo mi tranquillizzò! Respirai sollevato: era il concetto espresso il motore preminente della mia rabbia, allora. Ciò voleva dire che non era stato solo, né principalmente, l’aspetto fisico ad avermi tanto stimolato alla crudeltà. Anzi forse se fosse stato uno pure di bell'aspetto a dire scemenze del genere lo avrei detestato con ancor più forza e motivi. Non era vero, dunque, che per anni avevo avuto torto e che mi ero clamorosamente sbagliato; non è vero che le percezioni primarie sono quelle che devono prevalere nell'accettare o rifiutare una persona e che tutto va semplificato. Mi si rafforzò anzi il concetto originario mio: che tanta odierna ipertrofia dell'apparire e di poveri canoni estetici piuttosto triviali, non è che l'effetto del momento di regresso mentale e culturale in cui si versa in epoche di crisi e decadenza. Poi magari il sole, la giornata torrida, una specie di breve allucinazione durata fino all'arrivo della mia dose quotidiana di caffeina, avevo pensato che anche quella specie di scimmione potesse avere ragione. Finii di sorseggiare l'espresso, francamente mi ci voleva, dicono che eccita, ma a me no, e lo fanno pure niente male in quel posto. Diedi un'occhiata al salone con le sue belle decorazioni stile art nouveau. Alla fine una persona nella sua complessità ricorda un po' la parola “caffè” che comprende e unisce tante cose insieme. Se ti metti a cercare per saperle o capirle tutte ti puoi anche perdere, a molte di esse si dà un'importanza spropositata, alcuni aspetti oggi magari sono ipertrofici, vengono ingigantiti e li teniamo costantemente sotto controllo, eppure quello che conta davvero e che dà il nome e il valore a tutto il resto: luoghi più o meno lussuosi, scambi commerciali, semine e raccolti, lavori e professioni, è il contenuto di poche gocce di liquido dentro una tazzina minuscola.


giovedì 1 settembre 2011

La mia Casa Editrice

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Un bilancio prima della prossima uscita del romanzo "Come Attraverso il Fuoco"

A fine mese uscirà (finalmente) mio primo romanzo. Giunti al termine di questa prima tappa, che come tutte le fini implica di per sé un inizio, potrei tirare le somme relative alla parte più “oscura” del tragitto che un pensiero compie prima di arrivare ad avere una forma determinata, cartacea. Che dire! Dal punto di vista personale mi sono senza dubbio divertito, per me è lo scopo del vivere, ed anche sorpreso, che è tra i più grandi piaceri. Un bilancio solo positivo quindi, per una volta. Sul divertimento poco da dire, mi piace scrivere. Invece parte della sorpresa della realizzazione di un prodotto finito è senza dubbio conseguenza del fatto che per una volta, la prima, ho realizzato un prodotto (appunto) e, pure per la prima volta, finito. Non che sia uno che lascia le cose a metà di solito, ma devo riconoscere una certa autolesionistica propensione ad abbandonare i campi di battaglia nelle attività del quotidiano. In questo caso non ho mollato e sono andato oltre quella che era sempre stata l’unica fase che conoscevo come redattore di storie brevi, novelle, o racconti burleschi: quella della rapida redazione e della fruizione personale o di qualche amico. In questo caso mi sono dedicato a un progetto più complesso ed articolato che mi ha assorto per lo meno per diciotto mesi, prima di poter sottoporre un primo risultato a degli amici e poi ad un editore. Di lì in poi è iniziata una fase piuttosto sorprendente per uno che come me non aveva esperienze in ambito editoriale. Non immaginavo che prima della stampa di un romanzo si passasse per tante tappe ed intervenissero tante persone alla realizzazione dello stesso.
In un certo modo la “pulitura” e revisione di un testo è un’operazione piuttosto tecnica e complessa, che senza dubbio sacrifica parte della spontaneità e della forza di un lavoro solo personale e lo adatta a dei canoni ai quali, per indole ed esperienza, non sono solito badare, ma è anche vero che per altro verso somiglia alla levigatura di una gemma: fa emergere e risaltare solo il meglio di materiale grezzo. Dalla prima redazione a quella che presenteremo a breve il mio editore ed io il testo è molto cambiato, e si è anche ridotto. In parte nella fase di editing lo scritto si è addolcito, il personaggio ha assunto tratti meno deliranti ed ossessivi, è anche meno complesso, ed anche il linguaggio ha preso una piega più usuale, rinunciando in buona parte a costruzioni frastiche particolarmente rocciose, o colloquiali, intricate, ricche di anacoluti o ragionamenti involuti e cerebrali. Da quello che ho capito in una prima opera nessuno dà per scontato o confida nel fatto che chi scrive sappia farlo e conosca l’italiano permettendosi allusioni dialettali o localismi, è comprensibile, io stesso sono un diffidente patentato.
L’opera conserva comunque una discreta complessità che, come era mia intenzione, è celata da una solo apparente semplicità e spontaneità. Sul senso e le caratteristiche stilistiche dell’opera spero di poter dare delle linee guida nei prossimi post su questo stesso blog.
Che il testo originario andasse corretto e riveduto oltre che accorciato era qualcosa che davo per scontato, ma a volte alcune scelte e tagli sono per me stati piuttosto dolorosi, per quanto capissi che erano necessari non tanto per inseguire i gusti di ipotetici lettori o non cadere nelle insidie di censure più o meno esplicite (con questo o altro nome) quanto per conferire un ritmo meno malmostoso e non impantanare troppo frequentemente il lettore nel lodo di un pensiero intricato all’eccesso, che rompesse così il ritmo in modo fastidioso. Per gusti personali amo la leggerezza e l’agilità, ma riesco bene a sopportare la pesantezza e sono molto attratto dalla complessità estrema, mi rendevo comunque conto che la mia disposizione personale alla sopportazione non è molto comune ed è anche bene adattarsi agli altri piuttosto che inseguire solo la propria indole.  
Ho comunque iniziato a lavorare in parallelo sia al testo che sarebbe servito per la stampa che ad una versione personale che salvasse le parti che ritenevo interessanti benché non necessarie per la lettura del pubblico. Questa versione “author’s cut” è poi rimasta indietro, quando avrò tempo di rivederla e correggerla a dovere vorrei metterla libera in pdf su questo blog, ma non saprei dire quando potrebbe essere pronta dato che vorrei anche dedicarmi a progetti nuovi. Tra le sorprese dell’attività dello scrivere di sicuro ci sono stati i tempi di realizzazione, non pensavo certo che avrei tardato quasi tre anni dalla prima riga alla presentazione dell’edizione finita.
Nei prossimi post vorrei orientare la lettura e dare delle linee guida per l’interpretazione e dell’opera, che potrebbero essere utili sia a chi l’ha già letta che a coloro che lo faranno in futuro