domenica 11 dicembre 2011

LA SCENA DI ODIARE

 (idee da una conversazione col Guru sulla missione dell'arte)

Vivere è solo un vagare insensato, ignari nell’anelo frustrato di comprendere, verso qualcosa che sembra esserne la fine definitiva. Ci si ritrova di colpo e bisognosi di tutto in una specie di corsa forsennata scandita da spazio e tempo o da un divenire, un cambiamento che non cessa e non rallenta mai. Si finisce la vita nella paura, a pezzi, stanchi, esausti, fino a che un dolore ultimo spegne la fiamma di un corpo che era stato in un passato ormai mai esistito, più forte, più bello, più lieto. Ci si trova a partecipare a questa strana farsa senza poterla rifiutare, ma col miraggio di intendere o intuire che essa è stretta in un’infrangibile e ambigua morsa di terrore. Qui ormai è tardi, non c’è modo di rifiutare l’esistenza, non c’è modo di piegare le sue inflessibili regole, le regole del dolore e del piacere, di sentimenti e brame, e dell’ignoto. Detesto tutto questo. Detesto esistere e detesto che gli altri e tutto il resto esista. Detesto soprattutto che lo stupro di essere nato possa ingannevolmente vedersi mitigato da quei tiepidi e vani doni che ci promettono tanto apparente piacere, quando invece il destino ultimo delle cose può solo far male. Odio questo gioco ingannevole, costretti all’accattonaggio, divisi tra odio e amore, tra piacere e dolore. Sarebbe facile accettare amore e piacere, cercare di rifuggire impauriti il dolore e l’odio, ma non lo farò. Perché voglio dimostrami che detesto di esistere e non accetterò più come un miserabile, come quasi tutti fanno, i regali con i quali si vorrebbe spegnere la mia fiamma di rivolta, rendermi anche sorridente e mansueto oltre che schiavo e debole. Non voglio abbassarmi a recitare e mentire, ingannare per ottenere vanità. È bello amare ed è bello essere amati, è così facile lasciarsi trasportare, è così semplice avere tutto chiaro ed essere solari, o, come fanno i più, prendersi in giro piacevolmente gli uni con gli altri e così di nuovo abbassare la testa alle regole di un universo perverso e violento. È così facile che non lo farò mai più. Non appoggerò mai più l’esistente ed i suoi inganni, non mi farò corrompere né mi chinerò mai più ad accettare e riconoscere autorità esterne a me stesso, e rifiuterò tutti i tentativi per comprare un mio appoggio, svendere o intiepidire la mia bruciante ostilità ad esserci. Combatterò contro l’esistere e le sue regole perverse, in primo luogo quella che ci obbliga ad ingannare gli altri per ottenere un beneficio. Io pure li ingannerò, ma per non ottenerlo. Mentirò sempre, come tutti, più di ognuno, ma voglio essere così rigoroso e onesto nel mentire da arrivare ad essere odiato come chi dica sempre e solo la verità più brutale. Rifiuterò anche di fare del male ad altri, semmai ne farò solo a me stesso, perché chi rifiuta il meccanismo di volersi salvare nel quotidiano a scapito degli altri esseri o appoggiandosi a loro, usandoli, è colui che davvero si rivolta alle regole abiette e crudeli dell’esistenza. Odiando sé stessi si odia l’universo intero, e chi lo governa: quella regola che rende inevitabile la sofferenza e di propagarla verso altri. Vivrò la mia battaglia da giullare, nel poco che so fare, nello scrivere e nel parlare, laddove nelle mie esternazioni farò sempre in modo di risultare a tutti indisponente, abietto, sciatto, senza scadere mai in dialoghi empatici, senza blandire, senza autocompiacimento. Farò in modo che tutti mi detestino, mi renderò sgradevole, affronterò ogni umiliazione, ma sempre e solo nella mancanza di considerazione e rispetto, non vorrò mai la comprensione o l’appoggio di sconosciuti esserini in cerca di consolazioni, ma soprattutto non farò mai del male a nessuno, non sfrutterò mai nessuno, non chiederò nulla a nessuno, rifiuterò sempre tutti coloro che vogliano provare ad amarmi. Amerò solo a patto di non ottenere mai amore a cambio, senza che si sospetti che possa riuscirci e ostentando il mio odio per l’esistente. Il mio odio sarà una grande farsa, una farsa grande come l’esistenza stessa, un’antiodio, una presa in giro dell’odio, una sofferenza e un dolore che siano parodia della sofferenza e del dolore tranne che per me. Se necessario, infatti, mi sacrificherò pur di rivoltarmi, accetterò di essere odiato davvero e dilaniato dalla disapprovazione. Voglio che servi e piaggiatori del mondo diano per scontato di non essere in torto, che neppure mi prendano in considerazione, che si sentano non solo superiori, ma rifiutino ogni paragone con uno come me, vedendomi abietto, crudele, cinico, sessista, sadico, perverso, estremo. Voglio essere disprezzato da chi più brama e desidera ottenere cose nella vita, ammennicoli vari, beni, oggetti, potere e che perciò è chi davvero più disprezza gli altri e insensatamente cerca di allearsi con l’esistenza a scapito delle sue vittime. Voglio suscitare malessere dinanzi al mio linguaggio, la mia figura, la mia presenza nel ciarpame quotidiano dei morti viventi, voglio suscitare spesso un turbamento che allontani tutti schifati, non attragga nessuno. Eserciterò la mia ribellione facendo male solo a chi vuole che gli sia fatto male, il piacere del dolore è l’unico dolore che sono disposto a dare, negli unici momenti in cui si è davvero autentici e veri: quando di monta una scena, quando si sta mentendo ed interpretando un ruolo, nello sport, nel sesso, nel gioco, nell’arte. Si deve odiare solo l’esistente, ma non ogni ennesima vittima concreta di esso. Anzi, per odiare davvero l’esistenza si deve riuscire a non odiare altro e non far mai male a nessuno. Le fraterne vittime dell’esserci vanno odiate in scena, ma mai autenticamente, solo allora la scena di odiarle sarà un colpo di autentico odio e ribellione inferto alle regole dell’esistenza e simbolo di una rivolta senza scampo su esse.    

lunedì 28 novembre 2011

Traducción al español del Comentario al Primer Canto del Infierno de Dante (realizada sobre texto de V. Sermonti por V. G. Stipa)

 

Estuve realizando durante un tiempo la traducción de unos comentarios a la Divina Comedia que vienen de unas estupendas trasmisiones radiofónicas de hace unos años que fueron realizadas por Vittorio Sermonti, quien en Italia ha publicado también unos libros con el mismo contenido. El proyecto era de traducir toda la obra, pero nunca lo llevé a cabo ya que empecé a dedicarme a otras tareas. Realicé sólo unos cantos por iniciativa personal y de modo totalmente libre y sin el menor fin económico. El texto del poema no lo traduje yo sino que lo encontré en la Internet.



INFIERNO CANTO I


Los versos del comienzo de la Divina Comedia, en Italia, los conoce todo el mundo. El primer terceto de esta obra está tan profundamente arraigado en la memoria, que es casi un elemento imprescindible y propio de todo italiano, es parte del mismo ser italiano (n.d.t.).


En medio del camino de nuestra vida
me encontré por una selva oscura,
porque la recta vía era perdida.



Comienza así el poema más grande nunca escrito por un cristiano, en el que se cuenta de la peregrinación realizada por singularísima gracia divina por el poeta mismo Dante Alighieri, florentino de nacimiento, y para nada de costumbres, a través de los tres reinos de los muertos. Peregrinación que por alegoría significa el duro tirocinio moral y cognoscitivo de todo ser humano para librarse de su estado de culpabilidad y desesperación que le oprime, obtener paz para el breve tiempo de esta vida, y para la eterna la vertiginosa felicidad de la percepción de Dios. Pero además, y con un significado más general aun, también significa el itinerario de toda la cristiandad hacia el rescato común en la justicia.

La primera y casi elemental curiosidad de si Dante estuviera de verdad convencido de haber realizado este viaje imaginario en el más allá, o, por lo menos, si es esto lo que pretende que creamos nosotros los lectores, no tolera respuestas superficiales. Sobre este libro, como es generalmente sabido, se han escrito, literalmente, centenas de millares de otros libros, y contiene, este libro, pasajes, versos, adjetivos, pronombres, sobre cada uno de los que se han proporcionado, durante una exégesis de casi siete siglos, una multitud de interpretaciones inconciliables. El libro en su conjunto ha sido visto, leído, catalogado, como una visión beatífica, la novela teológica de todo ser humano, una epopeya alegórica y didáctica, un suma de ciencias herméticas, el panfleto cifrado de un templario, etc. pero también, ha sido visto como, el balbuceo sin sentido de un herético pedante, o incluso una escritura sacra. Es legítimo imaginar que muchas de estas interpretaciones hayan ido superponiendo a esta obra capas de significados segundos, terceros, y cuartos, que Dante mismo ignoraría y que probablemente no comprendería; pero también es cierto que muchos otros significados, laboriosamente tejidos por el poeta y escondidos bajo la trama del poema mismo, se han perdido para siempre. Pues, en cierto modo la candida pretensión de leer este libro como se leería una antología de emociones líricas, de leerlo, por así decirlo, con el corazón, a lo mejor es una pretensión un poco mezquina. También el corazón, de hecho, tiene sus propios prejuicios y una específica arrogancia. Nos queda sin embargo el consuelo de que un hombre nos haya destinado a nosotros, otros hombres, versos tan estupendos, puesto que en su tan alta y aguda locura, él creía en Dios y confiaba en nosotros.

Y bien! Dante Alighieri está contando que al llegar a la mitad de la vida humana, se dio cuenta de encontrarse en una selva oscura, y haber perdido el camino. Enseguida se sabrá que es de noche. En el Convivio, el tratado enciclopédico que Dante interrumpió al meter mano a la DC, la duración natural de la vida del hombre está fijada en los setenta años, conformemente a unos versículos de la Biblia, una compleja cábala numeral y las estimaciones de la ciencia médica de la época. En la selva oscura, por lo tanto, Dante se encuentra en los treinta y cinco años de edad. Que el año del cuento sea el 1300 parece ser cierto, tal y como veremos más adelante, y es probable que la noche sea la de entre el 25 y el 26 de marzo, a no ser la del 8 de abril, fecha en la que en aquel año caía el viernes santo. Se está, de todos modos, alrededor del equinoccio de primavera. El lugar geográfico, en cambio, es un sitio indeterminado del hemisferio boreal no muy alejado de la montaña de Sión. En términos simbólicos de todos modos sabemos que esta selva ‘salvaje y áspera y fuerte’, que es difícil de representar tal y como es terrorífica de recordar, significa, a la vez, un periodo atormentado e infeliz de la vida de Dante, y una fase de crisis institucional y de degradación moral del universo cristiano. Una selva tan ‘amarga’ que la muerte no lo es mucho más. Y sólo para tratar del bien que allí encontró, Dante está dispuesto a mencionar aquellas visiones espantosas que le visitaron en aquella selva. O, para ser más correctos, en el comienzo, al empezar aquella selva. De hecho si Dante poeta, no sabe decirnos de qué manera pudo entrar en ella, tan grande era su estado de sueño cuando dejó el ‘camino veraz’ –la diritta via- , tampoco nos dirá cómo consiguió salir de allí, y el cuento empieza justo cuando, Dante peregrino, al salir del bosque, que le había dado tanto pavor, ‘acongojado el corazón’, se asoma sobre una campo desierto, y mirando hacia arriba ve delinearse el dorso de un monte, o colina, ya alcanzado por los primeros rayos de sol matinal. El ‘planeta, que a todos lleva por toda senda recta’ es el sol, que la antigua cosmogonía de Tolomeo catalogaba como el cuarto de los planetas que giran alrededor de la tierra. Justo aquí, al pie del monte, comienzan el viaje y la historia. La selva famosa, que vive y perdura en la mente y en la memoria de todo italiano es poco más que un rápido prefacio. Ahora el miedo que había asaltado el peregrino se calma un poco, se ‘aquietó un poco el espanto’ que se había depositado en ‘el hueco del corazón’ de él, durante toda la noche que este avía pasado con tanto afán o angustia –pieta- y en este momentáneo alivio florece la primera y famosísima similitud del poema:


Y como aquel que con angustiado resuello
salido fuera del piélago a la orilla
se vuelve al agua peligrosa y la mira;

así mi alma, que aún huía,
volvióse atrás a remirar el cruce,
que jamás dejó a nadie con vida.


Es decir, como aquel que logra salir del mar proceloso casi sin poder respirar, da la vuelta y lo mira, de ese modo, su alma en la que perduraba el instinto a la huida, se volvió hacia atrás a mirar aquel camino que no dejó nunca a nadie con vida. ¿De qué ‘cruce’ se trata aquí exactamente? Más que de la selva, debería tratarse del confín, del límite fuera la selva, el pasaje entre la selva y el monte, que no ha sido nunca cruzado por un ser humano. Puesto que este cruce, debería significar, por alegoría el pasaje directo desde la vida en el pecado, es decir la selva, a la vida contemplativa, que el monte delineado en la luz del sol significa y promete. Sin embargo, este camino “directo” este “corto andar”, por el que Dante se aventura después de haber dejado descansar un poco el cuerpo cansado, no es, y es necesario aquí prestar atención, aquella ‘recta vía’ que él había abandonado como somnámbulo para perderse en la selva, puesto que este significaba el buen camino de la vida activa que, si queremos utilizar un esquema de dante enciclopedista, conduce a las personas sobrias y operosas, entre mil negocios y turbamientos, a la felicidad moral. Otro excelente camino es aquello trazado por el ejercicio intelectual que lleva al “miel de la contemplación”, aunque para recorrerlo, lo cual es justo lo que Dante tiene pensado hacer, es necesario librarse de las pasiones que oprimen nuestra pobre carne. Este optimo camino no es un atajo, es largo y extenuante, para alcanzar la cumbre del ‘deleitoso’ monte es necesario otro y más importante itinerario cognoscitivo, experiencia de la culpa y de la pena, y de la esperanza. El verso que indica, probablemente, el cansancio con el que Dante avanza claudicando hacia el monte a través de la ‘desierta playa’, ‘tal que el pie firme era siempre el más bajo’, justo por no tener una evidencia física, a ha sido motivo de sutiles y de despreocupadas lecturas alegóricas. Y pues, nada más empezar Dante a emprender este camino, se le presenta delante materializada como de la nada la imagen de una ‘pantera’ ‘muy ágil y veloz’ y de ‘piel manchada’ y le corta el camino de tal modo que él en repetidas ocasiones tiene la tentación de volver atrás. Sin embargo la hora matinal, y la dulzura de la estación le dan coraje y le dejan esperanza, ‘buen presagio’ ‘de aquella fiera la abigarrada piel’. En el texto original –a la gaetta pelle- es un galicismo claro. De hecho está empezando la primavera y el sol sube en el signo de Aries como cuando según tradición el Amor divino imprimió movimiento ‘por vez primera a aquellas cosas bellas’, los elementos del firmamento, creándolas. Por lo tanto la hora y la estación devuelven valentía al peregrino pero no tanto como para que no se vea espantado de nuevo por la aparición de un león, que se acerca furente por el hambre tanto que el aire mismo parece temblar. Sobre esta expersiòn a lo mejor puede confronatrse la poesìa de Cavalcanti ‘Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira, che fa tremar di chiaritate l'àre’. Y la siguiente aparición es la de una loba, que ‘por su flacura’ parecía estar cargada ‘de todas las hambres’, es decir codicia de todo tipo. Con el horror que se desprende de su aspecto, -la sua vista- esta loba, que también ha aparecido del fondo negro de una pesadilla, como las dos bestias anteriores, comunica al peregrino tanta angustia que: ‘perdí la esperanza de la altura’, un verso que en su simpleza es misterioso. Se considera pacífico que las tres fieras que constituyen un obstáculo invisible para la ascensión del monte, es decir para el arrepentimiento y la conversión del pecador, son emblemas de un bestiario alegórico. Mucho menos pacífica es la asignación a cada animal de un determinado vicio o pecado. Siguiendo como de costumbre la línea explicativa de Sermonti, nos atendremos a las interpretaciones más antiguas que parecen ser las menos tortuosas. La pantera –lonza- significaría la lujuria, el león rabioso es la soberbia, y la loba la avaricia. Para quien insiste sobre el significado político de las tres fieras, se refiere en especial modo a la loba, que, efectivamente, al aparecer elimina las otras dos y en cierto modo las comprende. Esta bestia sin paz podría ser una figuración de Florencia, desmembrada por su propia codicia, o podría, e incluso con mayor probabilidad, ser la curia de Roma, y efectivamente deja margen para reflexionar la consideración que al haber extraído Dante las tres bestias de un oráculo del libro de Jeremías, en donde aparece el hambriento trío de la pantera, del león y del lobo, cambie de sexo al lobo. Delante de la loba, se estaba diciendo, el peregrino huye. Y en el estado de ánimo del avaro, (o según Contini del jugador) que no piensa sino a acumular y que cuando llega el momento que lo pierde todo cae en una melancolía obsesiva, Él se ve empujado por esta fiera engorda e inquieta en la oscuridad de la selva ‘donde calla el Sol’. Ni un ruido hasta aquí. La oscuridad es silencio del sol, callan incluso las imágenes. Y cuando en la ruinosa retirada se ofrece de repente a la vista de Dante personaje una figura amiga, Dante poeta la recuerda con una metáfora acústica como alguien que ‘por el largo silencio parecía mudo’ –fioco- es literalmente débil a la vista a lo mejor como si se tratara de una figura humana que parecía flébil, indefinida, casi como si aflorara desde una larga ausencia. Nada más verle en la playa desierta Dante grita algo como ‘ten piedad de mi seas quien seas, sombra o hombre concreto que seas’. Calmada y minuciosa la sombra responde: ‘No hombre, hombre ya fui, y lombardos fueron mis padres, y ambos por patria Mantuanos’, es decir, no soy hombre, fui hombre, y mis padres fueron de la Italia del norte, (esto significaba en la época de Dante lombardo) de Mantua; ‘Nací bajo Julio, cuando ya su parábola biográfica estaba al terminar, y ‘viví en Roma bajo el buen Augusto, en tiempos de los dioses falsos y embusteros’ (o mentirosos) es decir en tiempo de paganismo. Fui poeta, sigue la sombra, y canté de Eneas, ‘aquel justo hijo de Anquises’ que vino de Troya, después del incendio de la soberbia Ilion; pero tu, dice hablando con el peregrino, por qué vuelves a tratar de tanta angustia –noia- (es interesante mencionar que el término noia en el italiano de Dante tiene un carácter mucho más atormentado y fuerte que en el actual, que, por lo general, puede traducirse al español con ‘aburrimiento’) , ‘por qué no subes al monte que es principio y causa de completa felicidad?’ Le pregunta a Dante. Los datos biográficos proporcionados por esta sombra son ampliamente suficientes para que le reconozcamos, se trata del alma de Virgilio, el más grande poeta latino nacido en Mantua setenta años antes del nacimiento de Cristo, el ‘famoso sabio’ que la leyenda de la edad media describía como poseedor de un saber tan profundo arcano y desmedido que casi rozaba la magia negra, y aun así capaz de sentir una premonición acerca de la buena novela del nacimiento de Cristo. Dante le reconoce y encendiéndose de veneración, se dirige a este ‘Oh! ¿Eres tú aquel Virgilio, aquella fuente que expande de elocuencia tan largo río?’ y se recomienda para que la asiduidad con la que ha leído, y vuelto a leer, estudiado, su poema sirvan como mérito. Virgilio no es sólo su maestro sino también su ‘autor’ es decir, segundo la definición reportada en el Convivio, persona digna de ser creída y obedecida. Virgilio es el poeta con el que Dante se siente en deuda por el –bello stilo che gli ha fatto onore- es decir el bello estilo que le ha conferido tanto honor. ‘Bello estilo’ es término técnico y se equivale a estilo trágico; en el De Vulgari Eloquencia, el tratado en latín de retórica lingüística y poética también interrumpido al empezar la DC, Dante cataloga tres niveles estilísticos, el trágico o ilustre, el cómico o medio, el elegiaco o dimesso. Principal y máxima tragedia el la Eneida, y trágico es el estilo de las canciones sapienciales y morales que Dante había compuesto en la primera etapa de la madurez. Pero dicho esto, y a no ser por otra razón, sólo en consideración del hecho de que este poema se caracteriza por llamarse Comedia, habría que profundizar el discurso acerca de los tres estilos. Probablemente tendremos otras ocasiones. Siguiendo con el cuento, Dante señala a Virgilio la loba, y le suplica de salvarlo de aquella que lo hace temblar venas y arterias, y temblando se echa a llorar. Virgilio lo reconforta con elocuencia circunstanciada, dice: “si quieres salir vivo de esta selva sin cruzarte con la loba, debes tener otro viaje”, recordemos el ‘optimo camino’ del que hablamos, “de hecho esta bestia que te hace pedir socorro no deja pasar a nadie, sino que impide el paso de tal modo que acaba matando, y tiene una índole tan perversa y mala que nunca está satisfecha y tras comer tiene más hambre que antes. Son muchos los animales con los que se apareja y muchos más van a ser aun hasta que venga el Lebrel, que le dará dolorosa muerte”. Virgilio se expresa con gran claridad, y de un modo muy llano, sin embargo la loba de la que está hablando sigue siendo aquella madeja de alegorías sobre la que casi siete siglos de interpretación no han sido suficientes para poner orden. Por ejemplo no se tiene claro quienes son los muchos animales con los que se apareja, y si se trata de vicios o de personas. El Lebrel, además es un mero emblema, escondido en la deliberada oscuridad de la profecía: ‘no se alimentará de tierra ni de peltre, mas de sabiduría, de amor y de virtud y su patria estará entre fieltro y fieltro’. El Lebrel es un perro de caza ágil y despiadado, pero esta figura, a qué se refiere? De qué alusión se trata? Quién echará de Italia y del mundo cristiano la avaricia y la codicia que los destrozan? Se trata de un papa, o mejor aun de un emperador, o un determinado príncipe gibelino o un orden de frailes mendigos, o incluso de Dante mismo? Acerca de la identidad de este redentor del orden terrenal, hoy en día la mayoría de los exegetas prefiere no pronunciarse, y pensar que el mismo autor no entendiese referirse a una persona determinada de la historia. Pero, bien, entre las muchas profecías que se encuentran la DC esta es la única que tenga como objeto un evento que todavía no se había realizado en el momento en el que el poeta la escribió, es decir es la única auténtica profecía de la Comedia y de Dante. El peltre es una liga metálica utilizada en la acuñación de monedas y que el nacimiento del Lebrel se realizará probablemente entre prendas pobres, ‘fieltro y fieltro’, aunque se ha pensado también que con el primer ‘fieltro’ el poeta apuntase bien la ciudad de Feltre, o una esfera del cielo, el sombrero de Castor, etc. y también respecto al segundo ‘fieltro’ se maneja un gran abanico de opciones. Lo que está claro es que este Lebrel está destinado a salvar aquella humilde Italia para la que murieron en batalla los héroes de la guerra legendaria entre itálicos y troyanos, objeto de la poesía de Virgilio en la Eneida que la trata con imparcial piedad, que perseguirá a la loba ‘de cuidad en ciudad’ –di villa in villa- hasta segregarla otra vez, en ‘lo profundo del infierno, de donde la envidia la hizo salir primero’, la envidia de Lucifer. Aquí Virgilio comunica a Dante de haber tomado por su bien, en el texto italiano –lo tuo me’- “me’” forma abreviada de –meglio-, la decisión de conducirle a través de los espacios sin tiempo en los que escuchará los ‘desesperados aullidos’ y reconocerá a los ‘antiguos espíritus dolientes’, todos que invocan la segunda muerte, es decir a lo mejor el aniquilamiento definitivo en el lago de fuego que el libro del Apocalipsis promete a los condenados como extremo y desesperado epilogo. Dante verá también aquellos que en las llamas del Purgatorio ‘están contentos’ expían contentos sus propias culpas puesto que saben que entrarán, tarde o temprano, entre las gentes beatas, del Paraíso, y para visitar a estas últimas, termina el famoso sabio, y siempre si Dante tendrá el amino de desearlo, necesitará una guía más digna que él, y con ésta le dejará al despedirse. De hecho el Emperador que reina allá arriba, (si es verdad que todo pertenece al Impero de Dios, allá encima está su palacio real), no quiere que yo entre en la ciudad celeste, puesto que fui rebelde a su Ley. ¡Feliz aquel a quién para su reino escoge! Dante por lo tanto empieza en respuesta a decir que vuelve a suplicar que este le salve en nombre del Dios al que no conoció del mal que se le presenta delante y peor de la perdición eterna, de conducirlo allá dónde él dijo así que pudiere ver la puerta de san Pedro y aquellos condenados del infierno que me has representado como inmersos en tanta desesperación, ‘aquellos tan tristes que tú dices’. El antiguo poeta se mueve, el poeta moderno lo sigue. Y así concluye este primer canto, discontinuo irreal, nítido, como el cuento de un sueño. Pero para poder orientarse en este libro tan inmenso, complejo y grande como un universo, será necesario seguir adelante. De momento empecemos por el comienzo:

En medio del camino de nuestra vida
me encontré por una selva oscura,
porque la recta vía era perdida.

¡Ay, qué decir lo que era es cosa dura
esta selva salvaje, áspera y fuerte,
cuyo recuerdo renueva la pavura!

Tanto es amarga, que poco lo es más la muerte:
pero por tratar del bien que allí encontré,
diré de las otras cosas que allí he visto.

No sé bien redecir como allí entré;
tan somnoliento estaba en aquel punto,
cuando el veraz camino abandoné.

Pero así como llegué junto al pie de un monte,
allá donde aquel valle cesaba,
que de pavor me había acongojado el corazón,

miré en alto, y vi sus espaldas
vestidas ya de rayos del planeta,
que a todos lleva por toda senda recta.

Entonces se aquietó un poco el espanto,
que en el hueco de mi corazón había durado
la noche entera, que pasé con tanto afán.

Y como aquel que con angustiado resuello
salido fuera del piélago a la orilla
se vuelve al agua peligrosa y la mira;

así mi alma, que aún huía,
volvióse atrás a remirar el cruce,
que jamás dejó a nadie con vida.

Una vez reposado el fatigado cuerpo,
retomé el camino por la desierta playa,
tal que el pie firme era siempre el más bajo;

y al comenzar la cuesta,
apareció una muy ágil y veloz pantera,
que de manchada piel se cubría.

Y no se apartaba de ante mi rostro;
y así tanto me impedía el paso,
que me volví muchas veces para volverme.

Era la hora del principiar de la mañana,
y el Sol allá arriba subía con aquellas estrellas
que junto a él estaban, cuando el amor divino

movió por vez primera aquellas cosas bellas;
bien que un buen presagio me auguraban
de aquella fiera la abigarrada piel,

la ocasión del momento, y la dulce estación:
pero no tanto, que de pavor no me llenara
la vista de un león que apareció.

Venir en contra mía parecía
erguida la cabeza y con rabiosa hambruna,
que hasta el aire como aterrado estaba:

y una loba que por su flacura
cargada estaba de todas las hambres,
y ya de mucha gente entristecido había la vida.

Tanta fue la congoja que me infundió
el espanto que de sus ojos salía,
que perdí la esperanza de la altura.

Y como aquel que goza en atesorar,
y llegado el tiempo en que perder le toca,
su pensamiento entero llora y se contrista;

así obró en mi la bestia sin paz,
que, viniéndome de frente, poco a poco,
me repelía a donde calla el Sol.

Mientras retrocedía yo a lugar bajo,
ante mis ojos se ofreció
quien por el largo silencio parecía mudo.

Cuando a éste vi en el gran desierto
Ten piedad de mí, le grité,
quienquiera seas, sombra u hombre cierto.

Respondióme: No hombre, hombre ya fui,
y lombardos fueron mis padres,
y ambos por patria Mantuanos.

Nací sub Julio, aunque algo tarde,
y viví en Roma bajo el buen Augusto,
en tiempos de los dioses falsos y embusteros.

Poeta fui, y canté a aquel justo
hijo de Anquises, que vino de Troya,
después del incendio de la soberbia Ilion.

Pero tú, ¿Porqué a tanta angustia te vuelves?
¿Porqué no trepas el deleitoso monte,
que es principio y razón de toda alegría?

¡Oh! ¿Eres tú aquel Virgilio, aquella fuente
que expande de elocuencia tan largo río?
le respondí, avergonzada la frente.

¡Oh! De los demás poetas honor y luz,
válgame el largo estudio y el gran amor,
que me han hecho ir en pos de tu libro.

Tú eres mi maestro y mi autor:
tú sólo eres aquel de quien tomé
el bello estilo, que me ha dado honor.

Mira la bestia por la que me he vuelto:
socórreme de ella, famoso sabio,
porque hace temblar las venas y los pulsos.

Otro es el camino que te conviene,
respondió al ver mis lágrimas,
si quieres huir de este lugar salvaje;

porque esta bestia, por la que gritas,
no deja a nadie pasar por el suyo,
sino que tanto impide, que mata:

su naturaleza es tan malvada y cruel,
que nunca satisface su hambrienta voluntad,
y tras comer tiene más hambre que antes.

Muchos son los animales con que se marida
y muchos más habrá todavía, hasta que venga
el Lebrel, que le dará dolorosa muerte.

No se alimentará de tierra ni de peltre,
mas de sabiduría, de amor y de virtud
y su patria estará entre fieltro y fieltro.

Será la salud de aquella humilde Italia,
por quien murió la virgen Camila,
Euriale, y Turno y Niso, de sus heridas:

De ciudad en ciudad perseguirá a la loba,
hasta que la vuelva a lo profundo del infierno,
de donde la envidia la hizo salir primero.

Ahora por tu bien pienso y entiendo,
que mejor me sigas, y yo seré tu conductor,
y te llevaré de aquí a un lugar eterno,

donde oirás desesperados aullidos,
verás a los antiguos espíritus dolientes,
cada uno clamando la segunda muerte;

después verás los otros, que en el fuego
están contentos, porque unirse esperan,
cuando sea, a las felices gentes;

a las cuales, después, si quisieras subir,
un alma habrá más digna que yo para tu ascenso;
te dejaré con ella, cuando de ti me parta:

que aquel emperador, que allá arriba reina,
porque rebelde fui a su ley,
no quiere que a su ciudad por mi se llegue.

Impera en todas partes, y allá reina,
allá está su ciudad y allá su alta sede:
¡Feliz aquel a quién para su reino escoge!

Y yo a él: Poeta, te intimo
por aquel Dios que no conociste,
de éste y de peor mal que yo me salve,

que allá me lleves donde tú dijiste,
así que vea la puerta de san Pedro,
y a aquellos tan tristes que tú dices.

Entonces se movió, y yo me pegué detrás.

martedì 22 novembre 2011

CHIARIMENTI N° 4, PRESENTAZIONE COME ATTRAVERSO IL FUOCO; Ascoli Piceno 20-11-2011

Propongo qui di seguito una rapida disamina di alcuni punti salienti della mia opera. Essi sono utili per rintracciarne il senso e poter orientare le lettura. In alcuni casi si tratta di questioni già trattate in altri "chiarimenti" precedentemente pubblicati su questo stresso blog, ma altri passaggi sono del tutto inediti e credo possano risultare interessanti. Dal momento che il presente scritto è tratto da uno schema, che avevo sotto mano in occasione della prima presentazione del romanzo, esso è inevitabilmente lacunoso e veloce. Spero di avere in futuro il tempo per poter chiarire altri aspetti che ho dovuto, purtroppo, tralasciare necessariamente.


  1. Genesi dell'opera e questioni preliminari.
Fedele alla mia linea ostile a concetti come “identità” e “giudizio” vorrei in primo luogo mettere in guardia chi volesse farsi condizionare da quello che si sa di me per giudicare l'opera (tutti sempre hanno questa ossessione per il giudizio) o peggio ancora di arrivare a conclusioni su me a partire dall'opera.

A chi, conoscendomi, fosse sorpreso di vedermi qui oggi posso dire che ho sempre amato scrivere, ma non ero mai stato in condizioni di dedicare a questa attività il tempo necessario per poter portare avanti un lavoro di un certo spessore, né ero mai stato soddisfatto delle mie composizioni redatte a tempo perso. Scelta tutto sommato strategica: in un momento di crisi ho creduto bene di approfittare della stasi generale per impegnarmi in uno scritto che seppure possa sembrare eseguito di getto è molto meditato e mi ha assorbito con certa costanza per un paio d'anni. Premessa forse va fatta riguardo al risultato finale-editoriale del romanzo che è molto più snello della sua formulazione originaria.

In sintesi di che tipo di romanzo si tratta? È un flusso di coscienza di taglio biografico (apparentemente auto-biografico dato che il nome del personaggio coincide con quello dell'autore fittizio), ed è un racconto posto semplicemente in un modo di ricordare che mima l'erranza di un pensiero, o del mio modo di pensare (da intendersi come meccanismo di associazione di idee e non rispetto al contenuto) distorto però da una particolare intensa ossessività affine all'insano. C'è senza dubbio la latenza di una malattia mentale del protagonista.

L'opera è strutturata a strati in modo che possa avere più livelli di lettura. Tecnica usata per cercare di captare l'interesse di chiunque, e ciò si esemplifica già nella trovata della situazione storica: c'è un “accadimento storico” che origina un determinato lasso di tempo, nel quale poi si schiude il complesso di vicende narrate. C'è quindi un evento concreto -che scocca un pensiero- e il pensiero è al contempo ricordo e attualizzazione-interpretazione del vissuto (quindi in tal senso è un modo “unico di ricordare”, proprio di quella determinata situazione storica e per tanto irripetibile pur nella ciclicità ossessiva con cui il protagonista ripensa al suo passato recente). Il personaggio, Andrea, è in un bar probabilmente con una Guinness davanti e la ragazza con la quale è uscito si reca al bagno, poi torna. Questo è quello che succede nel tempo del racconto. Il resto non “accade” nella contemporaneità se non nella mente del protagonista, lui ricorda, e il suo ricordo segue un iter particolare tocca vari temi ma si involge specialmente su un oggetto e poi su una persona in particolare che a ben vedere è presente sin dalla prima riga.

Se fossi chiamato a definire “il tema” dell'opera, francamente, non saprei che rispondere oltre a quello della pazzia incipiente, dal momento che lo scritto coinvolge vari aspetti della biografia di un personaggio complesso costruito meticolosamente ed è quindi una finta biografia, che ha come filo conduttore una storia d'amore che tuttavia è del tutto rarefatta e assolutamente insignificante nell'economia e nel senso più vero e profondo dell'opera.
Volendo essere onesto, tuttavia, benché io sostenga sempre che la storia d'amore narrata non è la parte principale, e men che mai fondamentale, dello scritto, se dovessi rispondere a una domanda simile alla precedente, ma magari formulata in altro modo (per esempio, quale è stata la prima considerazione-domanda che mi ha impegnato e spinto a scrivere) direi che essa gira attorno alla questione di cercare di interpretare cosa un uomo del medioevo (per quello che ne possiamo capire e comprendere) sarebbe spinto a contemplare nella nostra epoca rispetto all'amore e all'universo femminile. Sopratutto uno che pensasse di poter essere salvato e poter trascendere per mezzo della bellezza femminile.

Lo scritto infatti si gioca tutto su una carambola di significati, che considero fondamentale, e muove da soventi, e più o meno diretti, riferimenti alla Divina Commedia. Alcuni di essi posso svelarli subito dato che attengono agli elementi più direttamente evidenti a chi prenda in mano il libro e non lo abbia letto, altri il lettore potrà apprezzarli nel testo. Alcuni sono meramente scherzosi, a mo' d'esempio, la fine di ognuna delle tre parti in cui è idealmente diviso lo scritto termina con la parola “stelle”.
E ancora:
  • Il titolo viene dalla lettera 1 Corinzi 3: 12-15 dove il purgatorio è definito quasi come una prova del fuoco “ci si salverà, ma come chi attraversi il fuoco”. Sappiamo che Dante recinge l'ultima cornice (quella dei lussuriosi) di fuoco, e che egli stesso deve attraversare il muro di fuoco per accedere all'Eden.
  • Anche lo pseudonimo ha un senso che coinvolge in certo modo l'opera dantesca. Volevo che il nome del personaggio coincidesse con quello dell'autore, e che, come nel Canto XXX verso 55 della seconda Cantica, fosse la persona che egli ama a nominarlo dissipando ogni dubbio rispetto all'identità del protagonista. Per capirci avrei anche potuto formulare il titolo in modo diverso, e mettere il mio nome reale come autore, intitolando: “Come Andrea attraversa il fuoco”, ma poi non sarebbe venuta l'anfibologia che considero tutto sommato necessaria per mantenere il gioco di prospettive con il passo scritturale e il fuoco della lussuria e ancor di più per costruire quella atmosfera di incertezza che volevo fosse presente da subito.
  • La copertina: la scritta imperiale accostata una scimmia anche ha una specifica valenza, richiama infatti classicismo e modernità.
  • La biografia personale è in prima persona.
  • La riflessione si muove su tre livelli: quello personale, quello dell'epoca, e quello esistenziale.
  • L'opera è divisa in tre parti etc.
     

     2. Il genere, lo stile.

E' stato, molto opportunamente, definito come un hardboiled, e di certo lo stile e buona parte dell'estetica narrativa supportano questa azzeccata affermazione. Non la supportano però i contenuti scelti, né la storia tout court. Questi semmai vengono da ben altri richiami bibliografici, potrei menzionare, senza dubbio degli influssi: Celine, Bene (su due piani, Majakovskijano e decostruzionista), Palaniuk, Cioran, Dagerman, Orwell, ma anche Lovecraft, Poe.
Perché tante stranezze e uscite dagli schemi? Per un recupero tutto sommato dell'artigianato, e dello squilibrio, dell'imperfezione e del personale, per non sottostare a delle anonime ed implicite leggi del consumo che tendono oggi alla confezione di prodotti “perfetti” di maniera, equilibrati, etichettabili.

Riguardo alla questione della prima persona-assenza del dialogo, va precisato che si tratta della scelta più difficile che abbia dovuto compiere. Essa muove, tra spesse difficoltà tecniche, dalla necessità di creare quel senso di vuoto, di solitudine, ma sopratutto di incertezza rispetto al mondo, che non sarebbe stato possibile riprodurre con la, necessariamente consolatoria, presenza di un narratore-spettatore che sarebbe stato in certo modo anche interprete e garante delle circostanze narrate.
La solitudine del personaggio, e il fatto che venga macerato sopratutto dall'incertezza, erano i miei obiettivi primari da raggiungere anche in ossequio all'addio che Majakovskij tributa ad Essenin: “...l'incertezza ha provocato scompiglio...” e ciò è possibile solo lasciando la mente del pensante sola con se stessa, cancellando l'autore.

Potrebbe essere anche definito, tutto sommato, come un “romanzo della negazione”, basti pensare alla prima frase, il mio obiettivo era immergere attraverso questi espedienti stilistici il lettore in una atmosfera di rottura solitaria anche senza che se ne rendesse conto.

La questione di stile riguarderebbe anche il linguaggio (e sarebbe molto complicata da sviscerare sia nella genesi che nelle trasformazioni che ha subito) e la selezione-creazione delle vicende narrate, che rispondono a dei criteri molto serrati. Prima di passare a questioni contenutistiche basti solo mettere a fuoco come la storia sia del tutto priva di orpelli e spoglia di qualunque “moto”, non succede in effetti nulla. Con questo volevo creare un determinato effetto di scoramento e angoscia in certo modo assimilabile a quello del Deserto dei Tartari, ma nelle ambizioni più attuale e identificabile per le persone della mia e delle successive generazioni, al contempo negando la valenza estetica e contenutistica delle opere attuali zeppe di eventi sorprendenti, gesta impossibili (rivoluzioni, ammazzamenti, grandi conquiste amorose, sesso ipertrofico etc.). Provando a mantenere vivo l'interesse in assenza di colpi si scena, ma solo con le considerazioni formulate dal personaggio si riprende anche quella polemica tipica di Cervantes contro la letteratura cavalleresca riproposta, nella sua idiozia, nel cinema di maniera odierno (action movies compresi).


  1. Contenuti.
Vi sarebbe da distinguere tra i contenuti interni all'opera, “nell'opera” e quelli “dell'opera”.
Sui primi si apre apparentemente il vaso di Pandora posto che il testo ha un certo piglio filosofico, necessario ai fini di creare un determinato tipo di personalità, ma anche di richiedere al lettore un impegno “inattuale”, un certo sforzo. In effetti però tutti gli elementi del ricordo non sono altro che tasselli necessari per creare un personaggio che voleva essere indecifrabile e non ascrivibile a una categoria determinata. Non è intelligente e non è stupido, non insensibile ma univoco, non debole ma neppure infrangibile, è cioè il contrario di quel genere di soggetto che ci si propina di solito oggi. Volevo non fosse simpatico ma neppure odioso e assolutamente privo di autocompiacimento, anche se forse alcuni tagli allo scritto originale hanno un po' minato questo obiettivo vagamente autolesionista. La contraddizione lo intaglia e determina fino al punto di renderlo, per esempio, crudele -lui sì!- nell'univocità con la quale ama e desidera.

Riguardo poi alla selezione degli argomenti e delle situazioni riportate nel testo ho semplicemente creduto di trattare di mondi e di ambienti che conosco e che ho effettivamente vissuto privandole di ogni nota positiva e focalizzando solo il peggio di essi: tribunali, università, lavoro, etc. e lasciandone in luce sempre e solo la lisa e meschina banalità. Il personaggio quindi appartiene al “mondo” dell'autore solo nella misura in cui ciò è stato utile per poter riprodurre quella atmosfera di disinvoltura possibile solo in campi effettivamente vissuti, lo stesso valga per luoghi, città, ambienti, gusti personali.
Il contenuto dell'opera (quello presente nello scritto) è solo in parte assimilabile al mio pensiero (io sono più estremo del personaggio per alcuni versi, più complesso per altri, inquieto per altre questioni etc.). Andrea è un personaggio fittizio di certo a me simile che voleva però assurgere a prototipo di un'epoca senza, al contempo, esserne però un vero rappresentante, dato che ha sì problemi tipici del suo periodo storico, ma un modo assolutamente personale di viverli e rielaborarli. È il contenuto esterno all'opera quello vero ed autenticamente dell'autore, ed esso è molto più complesso e corposo e va al di là di una semplice critica sociale o generazionale.

La caratteristica forse più evidente del personaggio è di spaziare e prendere posizione un po' su tutto: amore, femminilità, violenza, esistenza, divinità, tradizione, legge, etc. in essi di più genuinamente mio rimane forse solo quell'irritazione che mi provoca l'atteggiamento comune di remissività verso ciò che è considerato scontato, dovuto.

Quanto al senso primo “dell'Opera”, cioè quello che io voglio comunicare con essa, dovrei ribadire innanzitutto che quello fondamentale ed anche più chiaramente definito attiene alla “malattia mentale”, latente, del protagonista, che assume consapevolezza di essa -da subito- (nel corto circuito ossessivo della rimembranza) e che vuol significare che una società -essa sì- malata del tutto non può che provocare malattia del pensiero nei suoi abitanti. La frequentazione di ciò che è malato crea a sua volta malattia, malessere; questo è il sunto più breve e semplice che si potrebbe fare.

La storia, dove “non succede nulla”, è voluta proprio perché in questo momento (opinione mia) 1. non succede nulla, 2. siamo abituati a distrarci contemplando scintillanti vite di altri rinunciando alla nostra, 3. siamo una generazione di gente che non può nulla, e non ha mai deciso nulla. A mantenere sveglia l'attenzione sul testo non è infatti mai il succedersi di grandi avvenimenti, grandi efferatezze, grosse mobilitazioni di mezzi, danaro, etc. ma è il solo pensiero e la voglia di capire cosa si ha davanti, nella convinzione che la missione inevitabile -ed il mistero più grande- della condizione umana  sia quello della conoscenza e il resto nient'altro che distrazione.

Altri sensi andrebbero ricercati nella filosofia del linguaggio e soprattutto nelle formulazioni che ne fa Bene (in: Quattro momenti su tutto il nulla, per es.) tema del “mancato” e nel “non detto”, nella consapevolezza che la costruzione di un personaggio del genere e la redazione di un testo con queste caratteristiche di continua non risoluzione delle problematiche vitali affondano nella comprensione di non essere “veri soggetti”, individui e di non disporre del linguaggio e meno che mai del senso, ma esserne disposti. Se dovessi parlare del tema che preferisco, parlerei di questo tema, che per me è il fondamentale: perché ho costruito un personaggio del genere e lo ho immerso nell'erranza di un pensiero così a scatti?! E di che personaggio si tratta fuori dall'aneddotico?

Il romanzo è stato definito con una azzeccatissima chiosa amichevole come una “favola amara al contempo attuale e anacronistica”. Lui, crocefisso tra due epoche mima nella riflessione la celebre scena di Bene che compone manichini bianchi i cui pezzi non combaciano. Sin dalla copertina volevo fosse evidente la sua stolida pretesa di maneggiare concetti antichi, categorie inattuali per risolversi nella vita. Un personaggio trasognato ma cinico che sfocia in più occasioni in un ridicolo demenziale e sardonico, steso su una cultura che analoga a un letto di Procuste di oltre duemila anni lo stira fino a farlo a pezzi.

Altro parallelo andrebbe formulato anche con l'Amleto, anche lui beniano, che pare essere un personaggio a cui sarebbe chiaro il contenuto fattuale di un comportamento etico, ma che temporeggia insensatamente non rintracciandone in sé i contorni di adesione personale e autentico convincimento. Il protagonista invece è convinto della sua posizione nichilistica e interventista, ma trova in sé delle scomode adesioni assiologiche che relega nell'estetico e delle quali non sa disfarsi.

Ho, infine, voluto accostare due mondi che comunemente si ritengono piuttosto eterogenei dato che ho cercato oltre a strutturare il discorso e riferirmi sovente alla Divina Commedia e ad opere medievali, di ripercorrere durante la stesura i temi più tipici e battuti dell'Heavy Metal: dallo splatter-gore, al languido, dall'amore, all'amicizia, dall'epico, al rassegnato, dal blasfemo, al delirante, al grottesco etc. Non saprei dire se il discorso convince, se questi temi possono coesistere senza accapigliarsi tra loro, di certo io sono abituato dato che in me coesistono da oltre vent'anni senza creare scompigli di sorta.

Nell'immagine l'azzeccatissimo articolo uscito sul Resto del Carlino in occasione dell'evento tenutosi il 20-11-2011

sabato 22 ottobre 2011

BREVE STORIA DELLA MORTE NELLA MIA VITA (e alcune ripercussioni) Part. I

Fino all'età di cinque anni non ebbi un contatto diretto con il concetto di morte. Oltre a ciò che forse c'è di innato in ciascuno di noi, mi pare di ricordare che ne avevo una cognizione molto vaga, avevo ascoltato la parola e avevo capito che essa aveva a che vedere col non essere più presenti e l'essere da un'altra parte. Avevo chiaro che non era propriamente una disgrazia o una tragedia posto che mi era stato univocamente proposto come certo che, abbandonato un posto e tutte le persone che continuano ad abitarlo, si finiva in un altro e che esso era infinitamente migliore dell'anteriore, sempre qualora la persona avesse fatto solo del bene in vita e io ero buono buono. Qui finiva tutto quello che sapevo e lo prendevo per certo senza discutere. Poi quando avevo cinque anni morì mia nonna paterna. Era stata molto male poverina e mi ricordo che quando mi dissero che non l'avrei più rivista mi dispiacque molto, capii che questa cosa di morire era dura per chi rimaneva e pensavo che non mi sarebbe mai andata via la voglia di rivederla e la tristezza per non poterlo fare. Tuttavia ero contento per lei, perché qui lei, ormai, stava sempre male e mi avevano detto che dove sarebbe andata a finire, invece, si stava solo bene. Non avevo dubbi che sarebbe andata a star bene perché era molto buona, e questo lo sapevo con certezza, la conoscevo bene. Vedevo tutti tristi però, come me o anche peggio, volevo essere utile, allora ricordo che andai da mia madre che stava piangendo in cucina e le dissi che non c'era da piangere tanto, che dove era andata nonna sarebbe stata meglio e che quindi anche se ci mancava dovevamo solo essere contenti per lei. Pensavo che avrebbe cambiato umore, lei però mi guardò con un sorriso annuendo, ma non smise di piangere. Non insistetti, ma rimasi perplesso. Neppure per un millisecondo mi venne in mente che mia nonna non fosse stata buona, e che ci fossero dubbi sulla sua ubicazione da defunta, e infatti non ce ne erano, piuttosto pensai che qualcosa di questa storia “dell'andare da un'altra parte” e dello “stare meglio” non doveva essere del tutto vero. Un paio di Natali dopo, se non proprio quello successivo, io aspettavo con ansia Babbo Natale, avevo chiesto un bel po' di cose: fucili, pistole, Lego. Di solito arrivavano perché, non lo sapevo, ma eravamo benestanti all'epoca. Io pensavo solo di essere abbastanza buono da meritarmi quello che chiedevo e che quelli che mi parevano buoni come me, ma non lo ottenevano, dovessero avere qualche segreto inconfessabile. M'ero creduto ben bene tutta la favola, mi piaceva parecchio, sia lui che la Befana, anzi lei anche di più, ma da quell'anno mi ricordo che mi faceva pensare a nonna e mi rendeva un po' triste. A scuola la maestra ci faceva fare temini sul Natale, ma era una socialista vecchio stampo mi sa, non amava affatto né l'irrazionale né il fantastico, e ci aveva detto che né Babbo Natale né la Befana esistevano davvero, ma erano invenzioni dei nostri genitori e che erano loro che compravano i regali e li mettevano sotto l'albero. Io non ci credevo perché credevo più a quello che dicevano i miei che a quello che diceva la maestra, mi fidavo. I miei compagni di scuola allora mi prendevano in giro perché a loro i genitori avevano detto la verità dopo che la maestra li aveva spinti a farlo e i miei invece no. Ho sempre avuto un carattere focoso, anche se ero l'unico che difendeva quella posizione mi prendevo a botte per discussioni del genere quasi quotidianamente da un certo punto, da novembre, in poi. Alla fine la situazione non era più sostenibile e i miei mi fecero un discorso per farmi digerire la verità. Mio fratello non fece una piega, io invece la presi male, come al solito piansi, e mi arrabbiai pure, apparentemente perché mi rodeva esserci cascato e di aver difeso una cazzata e che gli altri avessero ragione e io no, ancor più apparentemente perché mi dispiaceva che Babbo Natale non esistesse davvero, un po' più profondamente perché mi dovevo sentire deluso dai miei genitori che mi avevano mentito, ma credo che a nessuno venne in mente quello che a me invece mi si collegò all'istante nel cervello: se aveano mentito su questo potevano averlo fatto in chissà quante altre occasioni e sopratutto rispetto a quella cosa che già mi aveva suscitato tanti sospetti: quello che era successo a nonna e a dove era finita. Iniziai lì ad odiare visceralmente le menzogne, il mentire, la gente che finge, gli inganni, non l'ho mai potuta superare 'sta cosa. Ricostruii a ritroso le scene viste, e tutti quei pianti di mia madre mi parevano ormai un indizio fin troppo evidente del fatto che anche quella era una storia inventata, anche se supportata da decine e decine di persone, preti, catechisti e se neppure la maestra ne avrebbe dato una versione diversa. A me ormai la cosa non mi convinceva più affatto. Iniziai ad essere molto interessato al tema della morte anche se, essendo all'epoca piuttosto ipersensibile, gli stimoli esterni mi facevano un male eccessivo e quindi dovevo stare attento. A volte anche la bellezza è stata intensa sino a far male. Lì per lì mi rimase da affrontare il problema più grande, quello del distacco e la paura che esso potesse ripersi con persone alle quali tenevo anche più che a nonna. Era poco probabile che sarebbero morte a breve perché giovani. Chiedevo spesso rassicurazioni, ma l'incertezza rispetto a se avrebbero compiuto o meno tutto l'arco di una vita media mi dava molta angoscia. Il fatto che tutti si potrebbe morire in ogni momento mi spaventava molto. Per anni ebbi la strana sensazione che in vita avrei sofferto una perdita grave e che avrei pianto assai. Senza sapere la parola mi pareva una chiaroveggenza per quanta forza aveva questo sentimento. Iniziai a piangere pensandoci su quando ero ancora un moccioso, mia madre mi chiedeva che avevo e io non dicevo nulla, perché sentivo che sarebbe stata lei ad andarsene, forse mi influenzava il fatto che vedevamo Remì alla tv. Allora la abbracciavo e piangevo ancora più forte, perché sentivo che mi voleva bene, mio padre diceva che ero un debole e si innervosiva. Quando facevo le medie morì la sorella della mia professoressa di italiano, andavo un anno avanti, ero al primo anno. Io la signora non la conoscevo affatto e la mia professoressa poco. Ci portarono al funerale, non era certo una bella giornata, ma io non ero triste, non sentivo nulla, ma feci finta di essere addolorato perché mi vergognavo a non sentire nulla per qualcuno che era morto. Mi sorprese molto in me stesso questa indifferenza per gli altri esseri umani, un po' mi spaventò. Alcuni lì si disperavano, ad altri non gliene importava niente, si vedeva chiaramente. Mi parve stupido che fossimo tutti lì insieme, accozzati, che esistessero i funerali, non ho mai cambiato opinione. A casa raccontai la giornata e dissi che avevo fatto del mio meglio per sembrare triste, ma che non era proprio vero che lo fossi ed era stato difficile. Pensavo che mi avrebbero detto che non era bene non essere tristi dinanzi a una morte, ma lo confessai solo perché il mio comportamento non mi era sembrato molto esotico, anzi, piuttosto diffuso, altri bambini addirittura non avevano fatto altro che scherzare e strattonarsi per tutta la messa. Se avessi avuto il sospetto di essere l'unico ad essere tanto cattivo non avrei detto nulla. A casa mi risposero che non era affatto necessario fingere di essere dispiaciuti e che era normale che non sentissi nulla di speciale per la sorella della mia professoressa di italiano. Mi sentii sollevato, ma rimasi perplesso lo stesso, mi sorprese che fosse così pacifico per i miei che si può essere indifferenti agli altri e non lo vedessero come un problema e mi fece paura che degli estranei avrebbero potuto scherzare se fosse morta la mia mamma. Mio nonno materno era un medico legale e un uomo con una personalità sui generis. Giocavamo molto era un vero genio, faceva il cinico, era anticonformista, blasfemo, per me era l'unica persona con “le palle” nel senso che a me pareva interessante di tale concetto, che all'epoca si esprimeva con altre metonimie. Mi interessava un sacco il tema della morte, lui era la persona giusta, gli chiedevo sempre una caterva di cose. Rispondeva sempre, a volte con teorie strampalate, altre con esattezza scientifica, spesso se la rideva, sghignazzava, prendeva in giro. Io mi aggiravo con mio fratello piccolo per il suo studio pieno di volumi, tra i barattoli di reperti in formalina e le foto polaroid di autopsie ed esumazioni, le guardavamo di nascosto, i cadaveri marroni, viola o neri, gonfi, con gli occhi gialli, bestiali, il sangue dai tagli, gli arti amputati. A volte senza che se ne accorgesse prendevo i libri per vedere le figure e leggevo per cercare di capirci qualcosa, pure mio fratello veniva e ci faceva schifo quello che vedevamo, però a tutti e due ci attirava pure. Visto il mio interesse, a volte nonno iniziò a portarmi alle autopsie: incidenti di solito, trattori rovesciati, auto, moto. Una volta andammo da un ragazzo tossicodipendente che si era suicidato all'ospedale con le cordicelle verdi delle tendine, quando al liceo rividi quelle stesse cordicelle ci ripensai subito. Entrammo, lui era appeso, gli diede un'occhiata con la polizia e i carabinieri. Non era la prima volta che ci provava, questa volta ci era riuscito, per conseguirlo s'era legato uno dei polsi a un passante dei pantaloni, così gli rimaneva libera solo una mano e non si sarebbe potuto togliere il cappio. Era una scena molto triste, io mi fingevo di non rendermene conto del tutto perché a casa si parlava male dei drogati, ma mentre tutti scherzavano e facevano battute idiote che mi stavano irritando molto, mio nonno non disse una parola fuori posto. Rimasi molto sorpreso, quasi non lo riconoscevo, perché faceva sempre lo scemo e pensavo che avrebbe partecipato alle battute rendendole ancora più eccessive e grottesche, e invece no. Mi sembrò un grande, francamente! Mi piacque molto che stesse più come mi sentivo io, che come si sentivano quei burocrati di merda e che non ci scherzasse su. La mia attrazione per il macabro prese sentieri più o meno consueti, iniziai a sentire black metal, a vestire di nero, vedere film splatter, horror, ma anche a studiare culture antiche focalizzando sopratutto il valore che attribuivano alla vita e alla morte, i loro usi e costumi funerari, cercando un'estetica che mi soddisfacesse. Mi inclinai per i vichinghi. Avevo già maturato un'avversione spiccata per le storie cristiane in proposito, ma per anni non ci fu che calma piatta, non moriva nessuno in modo davvero doloroso, abbassai la guardia. Poi si concentrarono vari lutti, in pochi mesi, e di botto se ne andò mio fratello. Un anno più giovane di me, il primo che avrei salvato se avessi potuto, lo mandai affanculo quando uscì di casa e non ebbi mai il tempo di rettificare, dirgli che stavo solo scherzando, lo sapeva. Cambiò tutto. Il dolore andò oltre ciò che avevo immaginato e mi aveva spaventato tanto nell'infanzia, per anni pensai che non ce la potevo fare a stare senza di lui e che non avrei mai dominato la mia voglia di stargli vicino ancora e la tristezza. Fu incredibile, mi sentivo solo e capii che per quanto sia comune a tutti l'essere soli nell'esistenza, è un po' semplicistico vederla così. Di quell'episodio ho una qualità di ricordi molto diversa da tutti gli altri della mia vita, alcune cose le tengo stampate in mente con un nitore senza paragoni, altre sono vaghe e sfumate fino al punto da dubitare che si siano mai verificate, sempre che sia “vero” che il passato si sia mai verificato in alcun momento. Non piansi, mi chiesi se mi ero indurito dopo tanto tempo, ma non era questa la risposta. Anni dopo, quando ebbi la forza di pensaci su, dopo una lunga convalescenza della quale nessuno si rese conto, capii che la vera angoscia e la vera paura vengono dall'immagine futura del male, ma non tanto dal suo effettivo concretizzarsi. Quando esso arriva, è contraddittorio dirlo così, ma si rimane immobili, pietrificati e al contempo si inizia a lottare, ma come lotta un vino nella botte che fermenta. Forse è lì che si vedono veramente “le palle” e tutti possono sorprendere, anche noi di noi stessi ci possiamo sorprendere. Una volta nella mischia mi sparì ogni timore, cessò ogni piagnisteo, paradossalmente non era più tempo di frignare. Ero solo, mi presi del tempo, anni, vagai, ci pensai su molto senza parlarne mai, poi un giorno ne riparlai e ora lo sto scrivendo. Percorsi tante strade, osservai il più possibile, per cercare di capire l'inghippo della vita. Sentivo tutto attutito, da lì in poi rimasi così, come se i rumori mi arrivassero mentre ero sott'acqua. Arrivai alla conclusione che in positivo funziona allo stesso modo, anzi, funziona in modo ancor più estremo: una volta che si raggiunge l'oggetto del desiderio esso perde importanza del tutto, la sua luce si spegne. Non è possibile dire che “arrivare” non sa il vero scopo di un percorso, ma semplicemente le cose sono fatte così: tutto è illusorio e insoddisfacente se andiamo a vedere. A volersi ostinare a ragionare con concetti come “lo scopo” forse esso sarebbe semmai “il desiderare” senza prospettive di successo, al di là di esse, una specie di scemo desiderare senza oggetto, una cosa demenziale, simile al gusto del viaggiare tanto per viaggiare, e che è sempre un surrogato di quello che uno a tutta prima si immagina di voler ottenere. Purtroppo chi arriva a questa filosofia smette anche di desiderare davvero e anche per lui tutto perde importanza, come per coloro che arrivati a quanto agognano non fanno altro che agognare immediatamente qualcosa di ulteriore. La differenza è che per il primo tutto perde di importanza in blocco e non nel divenire, si è meno schiavi. Desiderando solo di continuare a desiderare qualcosa, si è anche un po' meno gretti e un po' più eleganti di questa massa di buzzurri pieni di begli e insipidi risultati che, ormai privi di valore, riciclano nella loro vita sciorinandoli davanti agli altri per ottenerne almeno il contentino di sentirsi ammirati o invidiati, ma si è comunque altrettanto delusi o anche di più, immersi nella consapevolezza amara di esserlo. Nulla fa eccezione non si riesce neppure a desiderare davvero una donna che si ha tra le mani. Ho sempre amato solo quelle desiderate senza poter averle o che non esistevano affatto. Per me l'amore sopratutto è un sentimento che non deve avere concretezza. Tra l'astratto e il concreto c'è la differenza che esiste tra i miei due animali preferiti, la tartaruga e il drago: se un drago esistesse alla fine ti renderesti conto che è solo una tartaruga, si materializzerebbe così. Il primo ti piace solo perché non c'è e te lo immagini tu. Se non fosse così le persone non comunicherebbero con tanta frequenza le loro brame in modo tanto intenso e ripetitivo e così i loro successi che pur essendo patetici triviali e noiosi non espressi sarebbero ancora peggio. Il buono di vedere tutto così è che le persone non hanno più il minimo fascino, uno è immune alle personalità altrui, incorruttibile, e ci si sente magari a volte vampiri a volte sacchi di carne, o già defunti e semidei, tutte cose che non hanno nulla a che vedere le une con le altre e che non dicono nulla di preciso. La maggior parte della gente a vederla da questo angolo è noiosissima, tutti li a volere questo e quello e far vedere quanto sono bravi ad ottenerlo. Le persone che si conoscono paiono quasi tutte una sorta di temporanei compagni di strada, arrivano ti si mettono affianco, cercando di farsi notare, ma in effetti a mala pena ci riescono. Si è tutti così presi da sé stessi...! Poi tutti spariscono e chi li rimpiange! Si parla tutti troppo. Non che ce l'abbia con nessuno, è solo che quello che mi si dice non mi interessa poi molto, mi sono abituato dopo tanti anni preso da cose mie, da problemi miei, dovevo pensarci su bene bene e non ho più ripreso a vedere le cose come prima. Mi sono anche liberato definitivamente dell'interesse per gli altri e per quello che è convenzionale, oltre che della paura dell'abbandono e dei suoi effetti. Sono come tutti gli altri esseri umani, preso solo da me stesso e le mie beghe, ma non fingo di no. Gli altri invece mi pare fingano solo per collezionare una platea che li guardi, ma forse non è così e siamo davvero diversi. Seppure è vero con la maggior parte della gente che incroci in vita non intavoli nulla di autentico, e fai solo un tratto di strada nel divenire fianco a fianco ognuno immerso nel suo monologo, ma facendo finta di dialogare, non lo devi dire questo. Siamo alle solite, chi non fa finta irrita, qualcuno di quelli che più fingono cerca sovente di vendicarsi dell'indifferenza e in genere poi ti si dice che sei troppo solitario, ti si danno consigli acidi, dati per insultare, si formulano giudizi sterili, tanto nessuno può esserti utile, ma alla fin fine neppure farti più male. A quanto ho capito la gente apparentemente vuole, vuole, ma non è nemmeno capace di volere quello che dovrebbe se fosse conseguente con le sue stesse premesse: non vuole sicurezza, ma essere rassicurata, non vuole occuparsi di qualcuno ma preoccuparsi per qualcuno, non vuole essere guarita, ma curata, non vuole smettere di piangere ma essere consolata ostentando inconsolabilità assoluta. Pare che in genere non si voglia un determinato risultato concreto, ma una sorta di strana, sinistra, proiezione esterna di esso. Con l'amore e col sesso funziona uguale, che con le auto, le cene, le case, tutto: la gente non vuole essere amata per quello che è, ma per la proiezione esterna di una personalità che non esiste per niente e non pare tanto interessata al piacere quanto al raccontare di averlo avuto, forse per ratificare in ogni momento che non si è così malaccio visto che si riesce ad avere successo. A nessuno gliene frega nulla poi nemmeno di sapere da chi in effetti sia stato avvicinato o addirittura toccato, amato, apprezzato, le sue qualità specifiche come persona. A me irrita stare a sentire gli altri, ma deve essere perché so che quello che loro vogliono io non lo voglio più, mi sono abituato così, e mi fanno sentire strano e fuori posto di continuo, non è piacevole. Tutto viene dalle mie storie di morte. Anche la mia spiccata diffidenza per il genere umano e sopratutto per le donne viene da quelle storie. Con le donne sono più cauto perché corro più pericoli con loro, mi attraggono sessualmente e corro il rischio di toccare la loro pelle nuda, stendermici sopra. Mi piace stare con loro, ma esigo di non saperne nulla di specifico, perché ho la fobia di venire a conoscenza del fatto che come persone non mi piacciono e che sono di quelle che andrebbero anche con quei tipi che ridono delle morti altrui e che sono indifferenti a tutto, che gli importa solo di loro, o che loro stesse sono così. Mi dà sempre fastidio pensare che sono stato abbracciato o mi sono lasciato toccare e fatto aiutare da gente del genere, non ci devo pensare e devo avere la certezza che non lo saprò mai perché altrimenti mi viene la nausea ed il ribrezzo.

lunedì 19 settembre 2011

IL MONDO NUOVO


Liberatici delle scorie di un pietoso vello morale autolesionista e violento si è oggi creata una società più giusta, eroicamente giusta ed eguale. Era così evidente quello che si sarebbe da sempre dovuto fare, ma per quanto tempo nessuno lo ha avuto chiaro? Tutti gli esseri umani soffrivano per qualche ragione, tutti se ne dolevano e cercavano ovunque di rimuovere le cause del loro malessere. Spesso si affidavano a leggende, a fantasmi, a idiozie varie, e solo di rado riconoscevano il vero: la gratitudine alla scienza, al suo ruolo di imperfetta salvatrice. Poi, di botto, si è riusciti a fare un passo ulteriore contro il male, a sconfiggere i peggiori di essi: la sofferenza fisica e le diseguaglianze. Oggi grazie ai controlli genetici nascono solo persone perfettamente sane, belle, non esistono più insufficienze, inadeguatezze, brutture, inefficienza. Qualcuno protestava all'inizio, come sempre era successo ai vecchi esseri umani, paurosi di tutto, contrari a tutto, a volte in mala fede, o stolti, univoci, sempre così falsamente rassegnati o innamorati delle loro gobbe e pustole. Ma gli illuminati lo hanno capito subito, poi anche tutti gli altri: che non è giusto che nascano infelici per rendere un po' più felici coloro che confidando nella rarità delle loro doti fisiche riescono a primeggiare. Questa crudeltà è finita. Questo scempio, questo egoismo insano sono parte di un passato considerato orrendo. Oggi, certo, è scomparso lo sport, tutti sappiamo fare qualunque gesto atletico allo stesso modo, tutti ne siamo altrettanto capaci, siamo altrettanto dotati, tutti belli, tutti sani, alti, forti, sicuri di noi. Sono scomparse anche tante neurosi, aggressività, il quoziente intellettivo è aumentato, le nascite sono controllate, nessuno mette al mondo figli prima di avere garantito il posto per poterlo crescere in modo adeguato al suo completo sviluppo. Nessuno soffre mai fisicamente, se non per incidente e la sicurezza è divenuta la prima tra le cure. Oggi ci pare spaventoso pensare anche solo di dover subire un'operazione chirurgica, una carie, o essere miopi, o grassi, o calvi. È solo da poco che siamo giunti a questa inedita situazione umana, ma già risulta così impossibile rinunciarvi, sono certo che ci si sente come qualche generazione fa dovevano sentirsi i nostri padri al pensiero di vivere in altre poche prive di anestetici e sterilizzazione dei ferri, o pensare di dover curare una carie senza attrezzature, o amputare un arto in macelleria. Ci si sente salvi, fuori da un mondo ostile e violento, pieno di orrori indicibili. Non è scomparso il gusto. Tutti siamo belli allo stesso modo, tutti intelligenti in modo analogo, eppure ognuno preferisce qualcosa di diverso, tutti abbiamo qualcuno che si inclina a prediligere la particolare mescola di caratteristiche che ci fanno essere unici nonostante la sostanziale uguaglianza del nostro livello psicofisico. C'è anche chi sceglie la solitudine, molti altri la promiscuità. Nessuno trova, però, più brutto nessun altro, mettiamola così, o forse il gusto si è semplicemente affinato, oggi piace una persona determinata in virtù di dettagli che occhi di uomini passati non sarebbero stati in grado di percepire. Nessuno comunque si sente fuori posto, nessuno è emarginato, umiliato, vessato, in imbarazzo, mai, nessuno provoca disgusto o ostilità e non è il contorno di vite di persone più fortunate, non esiste più la spietatezza di coloro che accettavano il rischio di far nascere qualcuno che sapevano sarebbe stato un disgraziato utile ad accrescere il grado di autocompiacimento di qualcun altro. Tutti si vive al massimo oggi, ma senza necessità di ostentare nulla, facendo le attività che preferiamo per la sola ragione di volerle realizzare, occupandoci solo di ciò che ci appassiona davvero e limitando a una parte irrisoria della giornata gli impegni meno interessanti ma necessari alla vita comunitaria. Tutti per un periodo della loro vita raccolgono la spazzatura o collocano prodotti sugli scaffali. Basta ormai poco sforzo per vivere su questo pianeta senza danneggiarlo ed aggredirlo, esagerando il suo sfruttamento. Abbiamo piegato ciò che ci circonda alle nostre esigenze, abbiamo vinto contro quella che veniva chiamata la Natura e dalla quale dovevamo strappare giorno per giorno il necessario per vivere. Abbiamo capito che essa non ha saggezza o intenzionalità ma era un mostro cieco e stolto che ora abbiamo asservito ai nostri bisogni. Abbiamo ottenuto, facendocela da soli, l'età dell'oro. Tutto fiorisce quando noi vogliamo, ci dà abbondanza per poter vivere senza rinunce. L'unico limite è quello del contenimento delle nascite, ma forse in futuro abbatteremo anche questo ostacolo. Con dei ritocchi è stata sconfitta o molto limitata anche la paura verso la morte e l'esistenza è divenuta un concetto neutro: né un bene, né un male, ma certo la piacevolezza del vivere odierno fa sì che molti scelgano di lasciare una discendenza. Con una scelta geniale ci siamo dati una data di scadenza, si sa esattamente il giorno ella propria morte, che è stato fissato al compimento del settantacinquesimo anno di età. Qualcuno avrebbe voluto più vita in virtù del fatto che l'uomo nuovo è più longevo dell'anteriore, ma decidendo così come è stato fatto si è risparmiato all'essere umano di vivere la parte peggiore e più triste dell'esistenza, quella che non vale la pena di provare. Ogni essere umano sa che vivrà per un periodo limitato, lo sapeva anche prima, ma ora che sa anche che al massimo vivrà fino ad un giorno determinato ha cambiato modo di comportarsi, ha mutato il suo atteggiamento. È come se solo ora si sia divenuti consapevoli di dover morire e tutti utilizzano il loro tempo nel modo più piacevole e soddisfacente. L'uomo si dedica alla vita attiva fino al sessantesimo anno di età, poi si ritira, per legge, in ampli spazi verdi, con i coetanei, esercitando le attività che preferisce in una comune e trascorrendo gli ultimi tre lustri in pace e serenità lontano dalle beghe della vita sociale e dalle decisioni strategiche. Per le generazioni future decide solo chi è giovane, gli altri si appartano osservando e dando, ove richiesti, consigli. La vita civile, e i diritti relativi iniziano a quindici anni, si vota e si prendono decisioni, ognuno secondo il ruolo sceltosi e la sua voglia di implicarsi nelle attività comuni, si può proseguire al massimo fino ai sessanta e poi si molla. Oggi l'uomo non è sempre felice, ma lo è molto più di un tempo, non ha paura del piacere, non ne ha paura né ha necessità di compiere azioni per essere ammirato, invidiato, imitato. Il salto evolutivo che si è dato ora è analogo a tutti quelli più importanti della storia dell'essere umano, il fuoco, la ruota, l'industria, l'informatica, o molto di più.

DICHIARAZIONE D'AMORE

Si tratta di un pezzo che non amo particolarmente e che è stato redatto come prova e per definire alcune idee. Tocca in modo troppo confuso e impreciso oltre che un po' lambiccato temi da me già battuti, tuttavia lo pubblico perché trovo che ci siano alcuni spunti che potrebbero essere interessanti.


Quando bacio il tuo labbro pro. fumato, | cara fanciulla, non posso obbliare | che un bianco teschio v'è sotto celato. || Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso, | obbliar non poss'io, cara fanciulla, | che vi è sotto uno scheletro nascoso.
(Igino Ugo Tarchetti 1867)

Siamo giunti al punto in cui dovrei dirti che mi piaci; vincendo ogni reticenza, timore di errare, dovrei dimostrare il desiderio di averti per me e sentirti vicina. Senza complicare le cose né esagerare, anzi, sobriamente, potrei lasciarmi andare in una prosodia vicina a una verità piuttosto piacevole. Certamente lo farei se non avessi pensato a lungo a tutto questo teatro di coppie e ciò che implica desiderare oggi un altro essere umano: un impari confronto con la perfezione di chi non ha carne. Ridotto all'osso potrei dire che mi attrai fisicamente, mi interessi mentalmente e ti vorrei per me. Con questo ci sarebbe ragione sufficiente per provare a stare insieme anche se non sentissi quel trambusto interiore demodè chiamato innamoramento. Sarebbe semplice, non sarei del tutto insincero. È la contemporaneità che complica le cose, la tecnologia che ormai ci ostacola, ci rende obsoleti; e inevitabilmente falsi.
Senti, sono stanco di tutta questa recita ambigua, e dell'estetica odierna, dei vestiti, delle cure e di questi ridicoli abbellimenti posticci che di nuovo, questa volta grazie a te, mi si palesano dinanzi. So che sei abituata a che ti dicano che sei una bellezza, ma guardandoti bene così imbellettata, a me pari una scimmia infiocchettata di raso, sei disonesta, ma anche autenticamente brutta e ridicola. Sono stufo di compiacere e favoreggiare, da complice coatto, quest'illusione “dell'autocoscienza” e che tramite essa ogni assurda pretesa estetica debba venire accolta, assecondata con bonaria rassegnazione, ogni sofferenza o disagio evitato. Per quanto fingeremo ancora? Essa, la coscienza di sé, non è ragione sufficiente per mistificare la realtà, darsi tutta questa importanza, privilegiarsi tanto, in modo così univoco ed esagerato. Pare una scusa! Perché semmai il pensare, il sentirci vivi, questo scemo, sterile rigirare sé in sé stessi ed esserci, per cui tanto ci pavoneggiamo tra l'indifferenza gelida di un universo sordo, condurrebbe proprio a svelare e tacciare di falso una volta per tutte quell'istintivo e testicolare autocompiacimento che, distanziandoci dalle bestie e, prima ancora, assai disonestamente, conferendo dignità anche a quelle, fa di ogni essere semovente una sorta di ammirevole e speciale oggetto di autodevozione e stupore. Non si tratta di te! Tra noi bestie non sei male! Vuoi sentirtelo dire. Non ricattare col disappunto, con la permalosità. Siamo tutti sulla stessa barca, tu non sai cosa vedo allo specchio, non puoi pretendere di essere speciale. Sì, forse all'inizio è un tanto imbarazzante ammetterlo, ma non mi sento certo diverso dalla sintesi bruta di pietanze assunte quotidianamente: un bel po' di grano e porco, quintali di bue, decine di migliaia di uova, bevande isotoniche o luppolate etc., tutto mescolato e ammassato insieme per andare a dire qualche parola insensata, fare rumore e rompere i coglioni al mondo intero con lagne o pretese, provocando disgusto o pena, sovente inespressi. Non la si finisce più di romperci le palle a vicenda, tra noi e a tutto il resto, fino a che all'unisono i consociati e forse l'universo intero non vedono l'ora che crepiamo e che si torni ad essere quello che sì è sempre stati, ma finalmente e di nuovo, in silenzio: un pezzo di sterco terreno che però almeno sta zitto, fango. Taci! Ascolta! È penoso l'essere arrivati a descriverci come angeli, l'aver inventato questo assurdo concetto pur di trovare il modo di paragonarci, in estrema mala fede, a qualcosa di diverso da un pezzo di filetto o un timballo ambulante che deteriorandosi va perdendo grumi di carne a ogni passo: cellule morte, saliva, sudori caldi o freddi, capelli, vello e peli, unghie, cere. L'intero mio materiale che mi forma sarà stato riciclato già chissà quante volte su questa crosta di stella, avendo già assunto chissà quante forme, stato chissà quanti animali, piante, uomini, lodo di chissà che posti: pomodori del sud Italia, verdure che procedono dall'Asia o dall'India, prosciutti spagnoli, nocciole piemontesi, vermi e larve, mosche e batteri, lanzichenecchi o scimmioni primitivi, di sicuro esplosioni nucleari di un antico astro. Nemmeno io sono più quello che ero anni fa e chissà cos'altro sarà, dopo esser transitato per me che da stupido ho istintivamente sentito di appartenere a me stesso in modo esclusivo. Siamo tutti di seconda, terza, indefinita mano, i nostri antenati veri sono mica quei pazzi che hanno copulato accettando il rischio demenziale di farci stare qui, ma tutte le cose o persone che ciascuno dei pezzi che ci compongono sono già stati. Magari qualche mio atomo ha già fatto parte del corpo di un brutale vichingo che ha violentato una monaca in un convento del primo medioevo, o erba che è stata calpestata da una capra sui monti, poi inghiottita. Immaginare ogni opzione ti fa senso? Essere stati altri ti fa tremare il ventre? Avevo già in mente che non fossi sincera, ometti, menti, parli tanto ma taci ora! Fai finta di essere diversa da una bisaccia di pelle piena di orrori maleodoranti, menti pure a te stessa fingendo di confidare nella passeggera giovinezza e dissimulando l'inevitabile con tutte queste cure, cremine e vestitini. Stiamo qui a parlare e far finta di piacerci a sufficienza solo per necessità, per spinta chimica. Simo costretti dalla ricerca del piacere ad essere indulgenti con noi stessi, a far finta di accettarci. Per carità! Continuiamo pure! Non c'è alternativa per il momento, ma si intravede il nuovo cammino forse. È questo che ora mi complica le cose, un tempo esistevano solo le statue. No, per quanto ci si impegni a curare il corpo, a far finta di non emanare odori spiacevoli, dissimulando come fai tu, e noi tutti oggi, specialmente le donne, che parete fingervi estranee anche alla defecazione, non saremo mai di quella eterea porcellana finissima di cui son fatti quei miti digitali, così eleganti, seppur bidimensionali così perfetti, lindi, ma eccitanti. Loro sono i veri esseri umani, o almeno quelli amati, con loro dobbiamo raffrontarci in una lotta impari. Loro che non sentono, non vedono, non esistono nemmeno come tali, miti inconoscibili a loro stessi e algidi, dei sordo-ciechi concupiti, non sanno di esistere, non dicono nulla, non hanno contenuti, sensibilità. Catturati e sorti in un istante per artificio tecnico, da materiale di scarto come il nostro, ma poi sublimati con ritocchi al computer a puro oggetto di feroce e definitiva brama sessuale, libido senza dolori, acciacchi. Questa è la vera alchimia! Oggi sì che si fa del piombo, oro! Meglio, dello sterco, angeli! Questi sono gli esseri che ci piacciono, non noi stessi: non io a te, non tu a me. Nel caso ci fosse ormai un dubbio: siamo ripieghi, perché ancora non posso penetrare la carta o lo schermo con sufficiente soddisfazione sessuale, ma quelli sono i corpi che ci eccitano oggi, i punti di riferimento estetici, erotici. Oggetti di desiderio privi di parola, concetti, contenuti, privi di tutte quei lagnosi, superflui orpelli che di rado si osa chiamare col loro nome. Quelle noiose e petulanti baggianate che facciamo finta ci interessino tanto. Si fa per ipocrisia, per costume, per non dover sentire dagli altri dirci quello che anche noi per gli altri davvero sentiamo e per darci la preoccupata ermetica illusione di essere ciascuno di noi il peggiore degli esseri umani, senza al contempo correre il rischio che l'onesta nostra esplicitazione della verità nella reticenza altrui ci releghi, nel dubbio della sua insincerità, tra gli ultimi, i più perfidi e cinici della nostra razza. Ormai forse dovremmo liberarci di uscite a due come queste, roba da preistoria, e affrettarci a sviluppare sistemi tecnologici per raggiungere il massimo grado di soddisfazione sessuale, magari potenziato da droghe e farmaci, un raffinato onanismo dinanzi a scenari virtuali che conceda piaceri di intensità sconosciuta all'umanità pregressa. Non ci sono sacrifici di sorta da compiere per ottenere tali benefici se non vincere quella stolida paura verso l'edonismo. Sono contrario alla riproduzione, ma a chi voglia perseverare nel credere che esistere sia un bene rimarrà il rimedio della fecondazione in vitro per tirare a campare. Eppure sono pressoché sicuro che una volta spostato il piacere sessuale nel suo autentico campo, finalmente raggiungibile grazie alla tecnica -quello dell'onanismo virtuale- la menzogna della scelta, proposta come virtuosa, della perpetuazione della specie umana e della copula come strumento per assolvere a tale obiettivo, si svelerà. I nati non sono che un danno collaterale del voler raggiungere un orgasmo, spostato quello da un'altra parte, alla buon ora, non nascerà più nessuno. Ed ora che fare? Che rimane a noi due se non quel datato baciare labbra sotto cui sappiamo nascondersi qualcosa di molto più deludente che solo un teschio?

sabato 17 settembre 2011

CHIARIMENTI N° 3: riguardo alla copertina

 

La copertina del romanzo è stata proposta, all'editore e poi al grafico, da me stesso (l'autore); è stata presa in considerazione e poi definitivamente accettata. Ha riscosso consenso solo in virtù del suo contenuto estetico, prima che ne specificassi il senso, ma essa possiede un significato preciso e affine alla storia di cui funge da primo elemento comunicativo.
Dal punto di vista personale ha anche un senso affettivo, posto che l'immagine che campeggia sulla scena viene da una foto, regalo di un caro amico, ma la ragione per la quale mi sono deciso a sceglierla ha un senso più profondo.
Va notato che gli elementi che compongono la copertina nel suo insieme sono fondamentalmente due: la foto e la scritta del titolo. Sono stati accostati in modo tale da creare un effetto piuttosto stridente la cui dissonanza arrivasse in qualche modo anche a chi non fosse subito cosciente di percerpirla.
L'animale raffigurato è infatti una scimmia (un esemplare imbalsamato esposto al museo "La Specola" di Firenze), un primate, quindi: l'essere che per aspetto più somiglia all'uomo e che la teoria dell'evoluzione ci fa immaginare come parente prossimo meno evoluto della specie umana.
La scritta è in carattere imperiale (Augustea), squadrata, rigida, del tipo da intagliare nel marmo. Inevitabile notare in essa un riferimento diretto e inequivocabile ai fasti dell'Impero Romano, reso ancor più evidente dall'uso della lerrera V per la U.
Mettere insieme due elementi tanto distanti sia nel tempo, che nello spazio, ma ancor di più nel concetto: un riferimento a un'epoca storica determinata del tutto estranea a una teoria scientifica dell'800, un elemento dello splendore di una delle fasi più alte, celebrate e per noi familiari e proprie della storia, con un essere poco evoluto e, inoltre, estraneo alla fauna europea, etc., voleva creare uno strano senso di incomprensibilità e forse anche di disorientamento.
Lo sguardo della scimmia ricorda quello umano, il suo volto non appare aggressivo, ma piuttosto stupido, benché quasi contraddistinto da un vago anelo verso la comprensione delle cose. Un animale del genere suscita anche una certa tenerezza, per quanta diffidenza si possa avere verso di esso, ma pure un senso di disagio al pensiero di essergli più simili di quanto siamo soliti pensare e non necessariamente più "fortunati". La relazione di tale animale con il personaggio è plurima, potrà arrivare a questa conclusione chiunque si prenda la briga di leggere il testo e non vorrei qui esplicitare ulteriormente a cosa mi riferisco. Stride anche l'immagine dell'animale con la parola "fuoco" primo dei più importanti passi dell'uomo verso lo sviluppo della tecnica.
La scritta "imperiale", invece, rimanda ad altri elementi tipici e propri del personaggio protagonista dell'opera (Andrea) che è assai consapevole (disperatamente consapevole) delle proprie origini culturali e in un certo senso amante del suo passato storico che ha fin troppo presente. Egli è, in un certo senso, dolorosamente "crocefisso" tra epoche ormai troppo distanti e i cui elementi non riesce a comporre in modo uniario e sensato, ma il cui sacrificio, abbandono, la progressiva perdita nell'oblio, lo atteriscono e dilaniano di rammarico.
Uno degli espedienti utilizzati per creare un personaggio che in modo sintetico rappresentasse l'epoca attuale e la dubbiosità perenne (se mi si passa ora l'esemplificazione troppo audace del concetto che avrei voluto esprimere nel testo) nella quale si è immersi volenti o nolenti, è stato proprio quello di creare un soggetto che cercasse (in modo che forse arriva al risibile) di ricondurre i suoi accadimenti a storie e teorie perse in un percorso umanistico di oltre duemila anni e con esse tentasse, inutilmente, di risolvere i problemi concreti che va affrontando ed interpretarli.